Nelle potenzialità del mercato crede Wall Street, che ha sostenuto uno dopo l’altro i titoli di società quotate impegnate nella ricerca. Può sembrare un’eresia, un calcolo cinico. Ma la lotta all’ebola è anche business. Anzi, big business.
Un’opportunità miliardaria per il settore farmaceutico, non solo per piccole startup ma per vecchi colossi in cerca di riscatto, fatta di rischi ma anche di possibili successi e rendimenti. Le grandi case farmaceutiche, finora in grave ritardo, si sono gettate in una corsa frenetica a caccia di farmaci sperimentali e cure, scommettendo che ora le condizioni siano mature: a pagare il conto scenderanno in campo governi e associazioni. E si aprirà presto un nuovo mercato per allestire riserve di vaccini destinate alle prossime epidemie di ebola.
Ci crede sicuramente Wall Street, che ha sostenuto uno dopo l’altro i titoli di numerose società quotate davanti al susseguirsi di esperimenti: la banca Credit Suisse ha valutato che sarà la battaglia contro l’ebola a dar vita al prossimo farmaco cosiddetto “blockbuster”, da un miliardo o più, con quella cifra in realtà spesa già soltanto dagli Stati Uniti per incentivare la ricerca e lo stoccaggio.
Nessuno può stimare davvero il mercato, sopratutto mentre l’urgenza è quella di far fronte alla tragedia umana e alla paura. Ma con i danni di un’epidemia che si estenda semplicemente alle aree dell’Africa limitrofe ai paesi dell’epicentro della crisi ormai calcolati in 32,6 miliardi dalla Banca mondiale, ipotizzare una domanda e fatturati multimiliardari non è difficile. Avolte i protagonisti in gioco sono startup oppure piccole aziende quotate che lavoravano nell’oscurità, altre volte colossi nuovamente pronti a investire e partecipare. La scorsa settimana Johnson & Johnson ha stanziato 200 milioni per anticipare a gennaio test su una combinazione di vaccini contro una versione del virus definita «molto simile» all’attuale. E test sono in corso su un vaccino sviluppato dal National Institute of Health americano con GlaxoSmithKline. Se dovesse risultare efficace, un milione di dosi potrebbero essere prodotte nel 2015. L’americana NewLink Genetics ha a sua volta il brevetto per un altro farmaco promettente, oggi messo alla prova all’ospedale dell’esercito Walter Reed.
Ancora, pullulano i nomi di pionieri improvvisamente sulla breccia: la piccola società canadese Tekmira ha visto il titolo impennarsi – quadruplicato da gennaio ad aprile e ora “solo” triplicato – grazie ai successi riportati dal suo Tkm-Ebola nel frenare il virus. E ZMapp, parto della minuscola start up californiana Mapp Biopharmeceutical sostenuta dal Pentagono e adesso da altre aziende, ha ottenuto risultati incoraggianti nel trattamento di due pazienti con un siero sperimentale estratto da foglie del tabacco.
Da settembre in gioco ci sono crescenti sussidi federali: la Biomedical Advanced Research and Development Authority americana, affiancandosi al Dipartimento della Difesa e alla sua finanziaria Darpa, ha allocato 32 milioni per gruppi impegnati sul vaccino. Altre case farmaceutiche poco conosciute e interessate e entrare in gara vanno dalla biotech Chimerix in North Carolina (Brincidofovir), il cui titolo ha raddoppiato in sei mesi, alla Sarepta in Massachusetts fino alla ByoChrist.
«La scommessa politica è che Stati Uniti e Organizzazione mondiale della sanità siano rimasti così scottati e imbarazzati dall’epidemia che intendano cambiare il modo in cui operano», ha detto Laurence Gostin della Georgetown University. L’esempio più vicino di simili svolte risale al 2009, quando Roche vide aumentare le vendite di Tamiflu di 1,74 miliardi di dollari in risposta a possibili epidemie di influenza aviaria. O, in precedenza, il contratto del governo statunitense da 1,25 miliardi con Emergent BioSolutions per 29 milioni di dosi anti-antrax.
Le polemiche, però, se infuriano per la confusione delle politiche sanitarie governative su quarantena o isolamento volontario di soggetti a rischio, scuotono ancor più il settore farmaceutico per i suoi ritardi e mancanze. Il problema, ereditato dal solo approccio di mercato all’opera, è che ad oggi i farmaci arrivano poco e male per affrontare l’epidemia all’ordine del giorno e i suoi drammi umani e sociali. Il j’accuse è del professore di Oxford Adrian Hill, che oggi guida l’esperimento finanziato dalla Glaxo e dall’Nih americano. Un vaccino poteva essere pronto, assicura, ma per le grandi case farmaceutiche, da Glaxo a Pfizer, da Sanofi a Merck, mancava finora un ingrediente essenziale, che nulla ha a che fare con la salute pubblica o la scienza: «Il business»
Il Sole 24 Ore – 29 ottobre 2014