Anna Lombardi, da Repubblica. L’impiegato “tossico” avvelena anche te: digli di smettere. Già. Si chiama proprio “ toxic worker” o almeno così l’ha battezzato la bibbia del management, l’Harvard Business School, in una ricerca appena pubblicata, ripresa anche dal Financial Times. La prima nel suo genere specificano i suoi autori, l’analista del lavoro Michael Housman e il professore di amministrazione aziendale Dylan Minor.
«Finora si è studiato ciò che migliora le performance aziendali, non ciò che le rallenta». Ma chi è davvero il lavoratore “tossico”? Un dipendente il cui comportamento ha un impatto così negativo sull’ambiente di lavoro (e di conseguenza sugli affari aziendali) che nemmeno i meriti di quelli che la stessa ricerca definisce “ superstar workers”, lavoratori dalle competenze e lealtà “stellari”, riesce ad equilibrare.
Il “tossico”, in fondo, lo conosciamo tutti: ce n’è uno in ogni ufficio. È il collega bravissimo ma narciso, quello sicuro di sè che con le sue battute acide abbatte il morale della squadra, ma anche l’invidioso che bisbiglia critiche delegittimando il lavoro degli altri o lo spaccone che si prende meriti non suoi. Oppure il Gordon Gekko di turno: uno che — come l’immortale protagonista di Wall Street — gioca sporco. Lo studio cita infatti — come caso estremo — quel Bruno Iksil, la “balena bianca”, trader di JP Morgan che nel 2012 fece investimenti talmente azzardati sul mercato dei derivati da influenzarne l’andamento: scommesse costate alla banca 6 miliardi di dollari. Altrettanto estremo è il caso di Vester Lee Flanagan, l’ex reporter americano che, divorato dall’invidia, lo scorso agosto uccise in diretta tv due colleghi.
Casi estremi appunto. Dietro cui però si nasconderebbe una vera patologia d’ufficio. Dall’impatto quantificabile anche economicamente. Ecco perché, dice lo studio «è essenziale riconoscere il “tossico” prima di assumerlo ». Affermazione che i due studiosi fanno dopo aver analizzato 50mila casi americani. «Calcolando i costi di cause di lavoro, risarcimenti e malattie dei colleghi stressati, il cattivo comportamento costa alle aziende 13mila dollari (12mila euro) l’anno a “tossico”». Al contrario, «assumere un lavoratore leale fa guadagnare all’azienda 6mila dollari l’anno (5mila euro)». Moltiplicate il “fattore tossico” per il numero di lavoratori e il conto è fatto.
Ma perché i “tossici” sono tollerati? La risposta di Harvard è curiosa: «Il management li considera uno sprone per gli altri». Che però è una falsa assunzione: lo studio dimostra infatti che la presenza di un “tossico” demotiva capi e colleghi che lavorano sempre meno e peggio. «Meglio assumere qualcuno meno sicuro di sé ma empatico» sintetizza il professor Minor. Ecco perché non basta limitarsi a test psicoattitudinali o a colloqui basati sulla prima impressione. Chi assume deve fare ricerche più accurate. Un costo iniziale che — assicurano i ricercatori — paga.
La scelta, suggeriscono, non deve avvenire solo in base al curriculum ma consultando gli atteggiamenti sui social per cogliere attitudini intolleranti e denigratorie. Fra i tanti trucchi, anche quello di notare se durante i colloqui pronuncia “io” troppe volte. E se il “tossico” è già tra noi? Diventa essenziale evitare quello che Harvard definisce “effetto mela marcia”: cioè che altri assumano gli stessi atteggiamenti. Il “tossico”, insomma, va isolato e affrontato. Ecco perché l’allarme riguarda soprattutto i capi. L’avviso è chiaro: il tossico avvelena anche te, digli di smettere o ti distruggerà.
“È UN PROBLEMA DI SELEZIONE: ANCHE SE GENIALI VANNO EVITATI”
«Agire già nel momento della selezione non limitandosi a scegliere in base alla bravura». Non ha dubbi Mariano Corso, professore al Politecnico di Milano dove insegna Organizzazione e Risorse Umane ed Economia e Organizzazione Aziendale.
Il lavoratore “tossico” va dunque evitato anche se geniale?
«Sicuramente, ma è prima di tutto un problema di “recruiting”. Le aziende al momento delle assunzioni dovrebbero aggiungere anche dei test attitudinali, e leggere nei curricula note sulle personalità dei dipendenti e sulla loro capacità di interagire con la squadra, sapendo che i “tossici” possono avere impatti sulla produttività negativi pur essendo geniali».
Perché a volte un bravo lavoratore non è in grado di fare squadra?
«Non è solo un fatto di personalità, ma anche di formazione. Le nostre scuole e università non insegnano ai ragazzi a considerare questa qualità come un valore professionale: quello che conta è eccellere individualmente».
Come si devono comportare le aziende per evitare errori, una volta assunto un “tossico”, che portino a costi inutili?
«Un lavoratore che non interagisce positivamente può diventare una vera e propria sfida per l’azienda. I capi del personale devono inviare ai soggetti “tossici” i corretti segnali per riuscire a migliorare i loro comportamenti. Non è detto che non si possa redimere».
Repubblica – 16 dicembre 2015