Due, tre storie, insieme brutali ed edificanti, si affacciano nell’inverno della grande nevicata, mentre le Dolomiti affogano nella neve e uomini e animali intrecciano i propri destini. Storie che hanno un solo protagonista: i cervi, i camosci e le bestie selvatiche che popolano le montagne di Cortina e del Cadore. Gli «altri» abitanti delle vallate dolomitiche, quelli che sotto lo strato bianco alto oltre due metri devono provare a vivere.
Dei due racconti, che confermano la duplice natura pietosa e predatrice dell’essere umano, il primo è il più brutto. Perarolo di Cadore, martedì. Una striscia di sangue sulla neve del greto del Piave, qualche decina di metri sotto alla ex statale «Cavallera». Qualcuno la nota, segue le tracce, e poi, improvvisamente, la vede: un magnifico esemplare femmina di cerva. Un’epifania di bellezza maestosa, sfigurata dalla mano dell’uomo. L’animale si trascina nella neve alta un metro, con una zampa attaccata al corpo solo da un filo di pelle. «Le hanno sparato, dalla finestra di una casa, o ancor più probabilmente da un’automobile», dice Roberto Menardi, del Centro studi ambiente alpino di San Vito di Cadore. «E’ difficile, infatti, che un cacciatore, per quanto non regolare in questa stagione, si spinga fino a laggiù, in mezzo a tutta quella neve. Ma è improbabile anche che le abbiano sparato da un’abitazione, troppo rischioso, si viene scoperti». Così, ecco la triste verità, raccontata ai microfoni di Radio Cortina: un orco (ma non è un caso isolato) che gira con l’arma in macchina, pronto a sparare contro ciò che agita i cespugli. Così, come nel Far west, dal finestrino. Ma privo della tecnica – e del cuore – per portare a termine l’opera, per risparmiare all’animale ulteriori sofferenze.
Viene chiamato il corpo di Polizia provinciale, la vigilanza venatoria, perché abbattano la cerva, ma, quando gli uomini arrivano sul posto, la bestia se n’è andata, forse a morire da sola, in mezzo al bosco. «Bracconieri», dice Roberto Rossi, operatore faunistico cortinese che ogni giorno inanella il suo personale pellegrinaggio tra le mangiatoie della zona, foraggiando gli animali con il fieno accumulato d’estate, e che della caccia ha una visione regolata, e cauta: «Si caccia solo in certi periodi, e la stagione qui si è chiusa a metà gennaio. Punto. Ogni atto di caccia, adesso, è bracconaggio». Altre storie, nell’inverno dei record, animano Cortina, stavolta con una luce diversa. Una è quella del branco di ungulati intrappolati nell’alveo del Boite, a Pontechiesa: scesi ad abbeverarsi, faticano a uscire dal torrente là dove gli argini sono alti muri resi ancora più alti dalla neve. Qualcuno ha scavato per loro un sentiero, una sorta di uscita di emergenza, e lo ha documentato su Cortina Channel, mentre i Vigili del fuoco di Belluno portavano loro del fieno. E ancora, lunedì, l’animale selvatico, forse un muflone, che proprio sulla «Cavallera» scappa frastornato, incapace di uscire dalla trappola dei muri di neve. Dietro di lui, un automobilista pietoso rallenta per consentirgli di ritrovare la strada. Ma, ancor più indietro, un mezzo della pulizia stradale che suona e protesta per l’intoppo. Intanto, a 1.500 metri di quota, l’allevatore Stefano Ghedina ha trasformato la sua stalla sopra Chiave in un ospizio improvvisato per soli animali. I cervi praticamente vivono là: travolti dalla nevicata, hanno trovato un rifugio sicuro. Si ribaltano così, nell’emergenza, le storie leggendarie e un pò grottesche dei turisti inesperti e del loro rapporto poco sicuro con gli animali. Come quei villeggianti milanesi che qualche mese fa correvano dalla titolare di un agriturismo cortinese, gridando: «Chiuda la stalla, signora, che scappano i caprioli!». «Sono capre», rispondeva lei. E scuoteva la testa.
Francesco Chiamulera – Corriere della Sera – 13 febbraio 2014