di Manuela Perrone. Un Paese congelato e col fiato sospeso, in cui le famiglie spendono in contanti al 41% e risparmiano in depositi bancari per placare l’ansia del futuro, le imprese smettono di investire (mantenendo però margini di profitto elevati), 8 milioni di persone non lavorano e le disuguaglianze aumentano corrodendo il ceto medio. Un Paese che ha cambiato pelle, dove la coesione sociale non tiene più, la solitudine avanza, nonostante l’esplosione dei social network, i giovani e le donne vengono mortificati e la politica bypassa sempre di più i corpi intermedi. Senza però ancora raccogliere risultati in termini di ripresa dello sviluppo e dell’occupazione. È questo il ritratto della società italiana 2014 contenuto nel 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. «Una società satura dal capitale inagito», sintetizza l’istituto guidato da Giuseppe De Rita. Il capitolo su welfare e sanità
Che individua «sette giare» per descriverla, sette contenitori che ribollono ma non dialogano tra loro: i poteri sovranazionali, Europa in testa, la politica, le istituzioni, le minoranze “vitali”, la gente del quotidiano, il sommerso e i media.
Politica e istituzioni autoreferenziali
Le sette giare sono vasi non comunicanti che agiscono senza raccordo, alimentando smarrimento e sfiducia. A cominciare dalla politica nazionale – che cerca di riaffermare il suo primato a colpi di decisionismo e di decretazione d’urgenza (il Censis conta 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri dal 2011, 72 convertiti in legge e tre in via di conversione), senza però incassare sul piano amministrativo e dei comportamenti collettivi – e dalle istituzioni, che si arrabattano tra outsourcing, salti di steccato (verso la politica) e rimpalli di responsabilità.
Le Pmi: vitali ma egoiste
Ma giare sono anche le minoranze «vitali», che comprendono gli imprenditori medio-piccoli dell’agroalimentare, del manifatturiero, del digitale, del turismo e del terziario di qualità concentrati sull’export e sull’internazionalizzazione: poco inclini a fare gruppo, «con una durezza della competizione – si legge nelle “Considerazioni generali” – che alimenta il loro gene egoista, riducendo le relazioni verso l’esterno». La disaffezione verso lo Stato non aiuta, e le appartenenze associative e di rappresentanza si riducono. Mentre il grande capitalismo soffre, tra cessioni agli stranieri e fasi travagliate di ridefinizione della governance interna.
Pochi investimenti, tanti profitti
In generale, per il pianeta delle industrie, il Censis registra il poderoso calo degli investimenti che si è registrato dal 2008 a oggi con un’incidenza sul Pil arrivata al 17,8%: una flessione complessiva del 25%, soprattutto in hardware (-28,8%), costruzioni (-26,9%), mezzi di trasporto (-26,1%), macchinari e attrezzature (-22,9%). Rispetto al 2007, la mancata spesa cumulata per investimenti ha raggiunto la somma record di 333 miliardi di euro, più del piano Juncker. Ma a una così accentuata riduzione delle spese produttive, legata alla crisi, «non ha corrisposto un analogo peggioramento dei conti delle imprese che ce l’hanno fatta». Dal 2008 il margine operativo lordo è rimasto alto. Nel 2013 il patrimonio netto delle imprese è giunto a pesare 5,8 volte l’ammontare degli investimenti e la liquidità ammonta a 279 miliardi (+17,3% rispetto a cinque anni prima). Un fenomeno «senza precedenti», che non è spiegabile soltanto con il razionamento del credito.
Investimenti esteri, crollo del 60%
Non sorprende che il sistema Paese attragga sempre meno investimenti esteri, diminuiti dal 2007 del 60%. Un crollo legato al «deficit reputazionale» che l’Italia sconta, dovuto soprattutto allo «svantaggio competitivo» delle lungaggini della burocrazia e della giustizia civile. Il risultato è che la penisola detiene appena l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri contro il 2,8% della Spagna e il 6,3% del Regno Unito.
Le famiglie col fiato sospeso
Dall’altra parte ci sono le famiglie, la “gente del quotidiano”, dove regna «la sospensione delle aspettative» alimentata dalla paura (l’80% non di fida degli altri), dall’incertezza verso il futuro e dall’aumento delle disuguaglianze anche sul fronte del welfare e della salute. Una spirale perversa e cinica che vede da un lato le famiglie «vivere a consumo zero», con un ricorso massiccio al cash di tutela, e dall’altro, in termini più squisitamente sociali, un narcisismo crescente, di facciata. Che nasconde la solitudine come «componente strutturale della vita delle persone»: il 47% degli italiani dichiara di restare solo durante il giorno per 5 ore e 10 minuti in media. Un’eternità, che dimostra quanto si sia indebolita la rete di protezione sociale.
Quel “nero” che avanza
Il ricorso sempre più massiccio al “cash di tutela” acuisce l’italica piaga del sommerso: il Censis denuncia «la recrudescenza della propensione di tutti a nascondersi, proteggersi e sommergersi».
La dissipazione del capitale umano
Non si ferma, in parallelo, la dissipazione del capitale umano: 8 milioni di persone “inutilizzate”, tra 3 milioni di disoccupati, 1,8 milioni di inattivi e altri 3 milioni di persone che sarebbero disponibili a lavorare ma hanno deposto le armi e non cercano più. Colpisce la mortificazione dei giovani, con il 75,9% dei disoccupati tra i 15 e i 34 anni, e delle donne (il 45,3% dei disoccupati e il 65,8% degli inattivi scoraggiati). Che va letta in tandem con il boom di occupati over 50 registrato dal 2011 (+19,1%) che, scrive il Censis, «contiene in sé le disfunzioni di un mercato del lavoro che serra le porte alle nuove leve e le spalanca ai lavoratori più anziani». Pesa anche il carico dei sotto-inquadrati, che aumenta rispetto al totale degli occupati, passando dal 19,1% del 2007 al 19,5% del 2013. Un esercito di oltre 4 milioni di lavoratori. E l’overeducation non riguarda soltanto i laureati in materie umanistiche: è ancora più elevata tra i laureati in scienze economiche e statistiche (57,3%), e interessa ormai anche un ingegnere su tre.
I rischi dietro l’angolo
Un Paese così “contratto”, tanto ripiegato su se stesso, così diseguale, rischia molto. Soprattutto, corre il pericolo di perdere quel vantaggio competitivo che aveva acquisito rispetto ad altri Paese in termini di «coesione sociale»: le fratture sociali delle banlieue parigine o dei quartieri degradati della Inner London si fanno drammaticamente più simili a quelle delle nostre periferie.
La spesa sanitaria privata è cresciuta da 29.578 milioni di euro nel 2007 a 31.408 milioni nel 2013, con una dinamica incrementale interrotta solo nell’ultimo anno, per la convergenza di spese di altro tipo sui bilanci di tante famiglie. Nel nuovo contesto si registra non solo un aggravamento di disuguaglianze antiche, ma anche l’insorgenza di nuove disparità. Il 50% degli italiani è convinto che le manovre sulla sanità, la spending review e i Piani di rientro delle Regioni abbiano aumentato le disuguaglianze. Non a caso, il 48% degli italiani indica tra i fattori più importanti, in caso di malattia, il denaro che si possiede per curarsi. E l’86,7% ritiene che, nonostante i suoi difetti, il Servizio sanitario nazionale è comunque fondamentale per garantire salute e benessere a tutti.
Informati e incerti: gli effetti negativi del boom dell’informazione sanitaria. La pratica dell’e-health è sempre più diffusa: il 41,7% degli italiani cerca informazioni online sulla salute. Ma l’esposizione a un numero molto elevato di contenuti informativi determina come conseguenza un’alterazione della percezione relativa al proprio livello di conoscenze sui temi sanitari. Tra i pazienti affetti da fibrillazione atriale, ad esempio, solo il 58,8% ha correttamente definito l’ictus come una malattia del cervello. Il dato varia con il titolo di studio: si passa dal 74,1% di diplomati e laureati al 45,6% di chi ha titoli più bassi.
Dove e perché sta diventando difficile nascere in Italia. Il nostro Paese presenta uno dei tassi di natalità più bassi a livello europeo: 8,5 bambini nati per 1.000 abitanti. Nel 2013 si è raggiunto il minimo storico dei nati (514.308) dopo il massimo relativo di 576.659 del 2008, con una riduzione di circa 62.000 nati. E l’età media delle donne al parto (31,4 anni) è tra le più alte in Europa. Al Sud si registra una natalità più bassa di quella del Nord e del Centro a causa del minore effetto compensatorio della fecondità delle straniere. Ma pesa anche la maggiore incertezza occupazionale ed economica. Da una indagine del Censis emerge che, tra le cause della scarsa propensione degli italiani ad avere figli, le cause economiche vengono citate nella maggioranza dei casi (85,3%), soprattutto al Sud (91,5%). Se l’83,3% degli italiani è convinto che la crisi economica abbia un impatto sulla propensione alla procreazione, rendendo la scelta di avere un figlio più difficile da prendere anche per chi lo vorrebbe, questa quota raggiunge il 90,6% tra i giovani fino a 34 anni, che sono coloro che più subiscono l’impatto della crisi e allo stesso tempo dovrebbero essere i protagonisti delle scelte di procreazione.
Il rischio di scissione tra il welfare e i giovani. La radice della fragilità della condizione giovanile è occupazionale. In meno di dieci anni sono scomparsi oltre 2,6 milioni di occupati giovani, con un costo della perdita che ammonta a 142 miliardi di euro in termini di mancata produttività. Alle difficoltà reddituali si affianca una fragilità delle condizioni patrimoniali in relazione alle altre generazioni. La ricchezza familiare netta delle famiglie con capofamiglia giovane risulta pari a 106.766 euro (-25,8% rispetto al 1991), laddove le famiglie con capofamiglia un baby-boomer di età compresa tra 35 e 64 anni hanno visto un incremento del 40,5% e quelle con capofamiglia un anziano addirittura del 117,8%. Dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non riesce ad arrivare a fine mese. Si stimano in 2,4 milioni i giovani che ricevono regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori. L’aiuto regolare genera un flusso di risorse pari a oltre 5 miliardi di euro annui. In questo contesto, il rapporto dei giovani con il welfare sta diventando più problematico, perché il 40,2% dichiara che negli ultimi dodici mesi ha verificato che ci sono prestazioni di welfare (sanitarie, per istruzione, di altro tipo) che prima aveva gratuitamente e per le quali ora deve pagare un contributo, il 57,5% registra prestazioni per le quali è aumentato il contributo che già pagava in passato e l’11,7% richiama prestazioni che prima aveva gratuitamente o con un contributo e che ora deve invece pagare per intero.
Altro che un costo: le funzioni economiche e sociali dei longevi. Se si considerano la spesa pubblica per le pensioni, pari in Italia al 61,9% della spesa per prestazioni sociali (il 16,1% in più della media Ue), e l’elevato consumo di sanità pubblica, non può non emergere un notevole costo sociale della longevità. Va sottolineato, però, che 2,7 milioni di persone con 65 anni e oltre svolgono attività lavorativa regolare o in nero; si prendono cura di altre persone anziane non autosufficienti 972.000 ultrasessantacinquenni in modo regolare e 3,7 milioni di tanto in tanto; 3,2 milioni si prendono regolarmente cura dei nipoti e 5,7 milioni lo fanno di tanto in tanto; 1,5 milioni contribuiscono regolarmente con i propri soldi alla famiglia di figli o nipoti e 5,5 milioni lo fanno di tanto in tanto.
Il Sole 24 Ore e Quotidiano sanità – 5 dicembre 2014