Aveva promesso 125 milioni di euro, ma le richieste sono troppe e i soldi non bastano La soluzione? Non dare niente a nessuno. Si può decidere di alzare la voce, a patto di avere le spalle abbastanza larghe per fronteggiare la reazione. Invece lo scudo previsto dalla Commissione Ue – lo stanziamento da 125 milioni di euro a favore dei produttori ortofrutticoli europei, i più colpiti dall’embargo russo – è fiacco. Rotto. Costruito male. Il meccanismo non funziona, si sono accorti, così la misura di emergenza è stata sospesa fino a nuovo ordine.
A far saltare il banco sono stati i produttori polacchi, che da soli hanno avanzato richieste pari all’87 per cento dei fondi complessivi. Troppi soldi da destinare a un solo Paese, anche se è fra quelli del continente che ha rapporti economici più intensi con Mosca. Così la Ue ha bloccato tutto, e ora tra gli operatori del settore crescono rabbia e preoccupazione, nonostante la promessa del commissario all’Agricoltura Dacian Ciolos di uno «schema più mirato ed efficiente» in arrivo «nei prossimi giorni». Il problema sta tutto nel metodo scelto, quello del «chi prima arriva, prima ottiene»: i produttori fanno richiesta al Ministero del proprio Paese, questo gira l’istanza a Bruxelles, che copre i costi fino alla copertura dell’intera cifra stanziata, seguendo l’ordine delle domande ricevute. Varsavia si è mossa prima, e non solo perché i suoi scambi con il Cremlino sono intensi. «Per loro è particolarmente conveniente ricevere l’indennità di ritiro», spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, «perché hanno costi di produzione molto bassi». Quindi il rapporto tra il mancato incasso dei prodotti invenduti e la somma erogata dall’Ue è vantaggioso. L’indennità, infatti, è uguale per tutti i Paesi, un tot euro per ogni chilo di frutta o verdure rimaste sui tir: qualità e costo del lavoratore non contano.
Dal 7 agosto, quando è scattata la rappresaglia commerciale russa sulle importazioni di prodotti agroalimentari europei, i produttori del continente hanno visto i contratti stipulati oltre gli Urali trasformarsi in carta straccia; nel migliore dei casi sono riusciti a vendere quei carichi altrove, nel peggiore – e più frequente – hanno dovuto far tornare indietro i camion già partiti e cedere quelle casse di frutta e verdura a organizzazioni Onlus. È in questi casi che sarebbe dovuta arrivare l’indennità di ritiro, cioè il rimborso da parte dell’Ue, che la Polonia – il cui premier Donald Tusk è designato alla presidenza del Consiglio, e che rispetto a Putin si è sempre schierata per il pugno di ferro – è stata così solerte nel chiedere. «Le indennità dovrebbero essere diversificate in base ai costi di produzione», sostiene ancora Bazzana.
Ora che Bruxelles ha fatto marcia indietro, lasciando tutti senza un euro in tasca, le associazioni di categoria sono compatte: la Confederazione italiana agricoltori esprime «grande preoccupazione per i nostri agricoltori, i primi in Europa con 463mila aziende produttrici di frutta e verdura»; Giorgio Mercuri, presidente dell’Alleanza Cooperative alimentari parla di «danno e beffa».
E il danno è anche indiretto: i prodotti che gli altri paesi Ue non riescono a vendere in Russia finiranno in altri mercati, Italia compresa. L’equilibrio domanda/offerta salta: così ad esempio le mele polacche – 3,5 milioni di tonnellate quest’anno, destinate prima dell’embargo in grandissima parte all’ex Unione Sovietica – finiscono anche da noi, fanno lievitare l’offerta e, di conseguenza, crollare i prezzi. Mentre allargando lo sguardo agli altri settori colpiti dal blocco all’import – carni, latte e suoi derivati, pesce – il danno stimato per l’Italia sale a circa 200 milioni di euro.
Le associazioni di categoria chiedono al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina di «vigilare con la massima attenzione» sulle prossime mosse dell’Ue, Martina ieri ha inviato un messaggio al commissario Ciclos chiedendo di «superare immediatamente lo stop agli aiuti» e invocando una «risposta concreta per le imprese che non possono tollerare ulteriori ritardi». Già, perché mentre a Bruxelles decide, frutta e verdura marciscono.
Il Giornale – 12 settembre 2014