Un solo malato a Madrid, un’infermiera contagiata. Un malato a Dallas, un’infermiera contagiata e forse altri. Migliaia di casi e di morti in Guinea, Liberia e Sierra Leone gestiti da Medici senza frontiere (Msf) da febbraio: una sola infermiera contagiata. Eppure si lavora in condizioni ben diverse a Monrovia e a Dallas o a Madrid.
Percentualmente il dato colpisce e fa porre più di una domanda. Si conosce veramente Ebola?
«Si. Quanto accade è tipico delle febbri emorragiche. Gli operatori sono particolarmente a rischio perché gli ospedali diventano dei concentratori del virus», risponde Adriano Lazzarin, primario di malattie infettive e virologo del San Raffaele di Milano.
In realtà questi contagi sono avvenuti laddove le stanze sono al massimo dell’isolamento e il personale si muove in tute che sembrano più scafandri che camici.
«L’errore umano c’è sempre — continua Lazzarin — e forse in situazioni protette aumenta il rischio di distrazioni, causate anche dalla sensazione di super sicurezza. Grave, perché questa malattia è molto rapida e contagiosa quando si manifesta ma è subdola e difficile da individuare nella fase subito precedente. Anche i sintomi sono comuni a tante altre malattie. Perfino al raffreddore».
Quanto incide la conoscenza teorica rispetto a quella pratica?
«Incide molto — dice Saverio Bellizzi, medico epidemiologo di Msf —. Noi ci occupiamo di Ebola dal 1976 e ce ne occupiamo nella realtà estrema di questi Paesi dell’Africa. Sappiamo di rischiare la vita minuto dopo minuto e non solo per Ebola. Il minimo errore può essere l’ultimo. Questo conta e siamo allenati a trattare i casi sospetti e i malati con le precauzioni sperimentate in prima linea, con tute mascherine e guanti efficienti anche se non proprio uguali a quelle che si vedono sulle foto che circolano in questi giorni riguardo vari addestramenti in ogni parte del mondo».
In più, le condizioni di isolamento in Africa (cameroni con più pazienti) non è certo paragonabile alle stanze a pressione differenziata per un solo paziente dei reparti per malattie infettive dei Paesi più sviluppati.
«Vero», conferma Bellizzi. «Eppure ce la caviamo bene».
La psicosi sta crescendo e se ci si ammala in ospedale non può che peggiorare. Si è pronti o no ad affrontare Ebola?
«Le linee guida ci sono, la conoscenza del virus c’è e non c’è. Le autorità dicono che tutto è sotto controllo — spiega Lazzarin —. In Italia siamo pronti, se però c’è un caso di Ebola, data la difficoltà a individuare i malati prima dei sintomi, la catena potrebbe scricchiolare. Un paziente arriva in pronto soccorso, i sintomi non sono chiari, l’ambulatorio è aperto e prima che il medico avvii le procedure previste i contatti possono essere molti».
Una spirale sempre più ampia…
«Sì, e tutti dopo dovrebbero essere isolati e messi sotto osservazione». Chissà se l’Italia è in grado di gestire, per esempio, un paio di malati e i relativi 160-200 contatti sospetti. Per fortuna il virus dell’Aids ha «rieducato» i medici alle norme di prevenzione e alla conoscenza delle malattie infettive.
Mario Pappagallo – Il Corriere della Sera – 13 ottobre 2014