Sapevate che nell’arco di qualche anno potreste trovare in commercio molti più prodotti e servizi provenienti dagli Stati Uniti? Potrebbe essere l’effetto di un accordo tra Ue e Usa – già definito “storico” – le cui trattative, iniziate ufficialmente lo scorso luglio, dovrebbero terminare entro il 2014: si tratta del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership ), ovvero di un trattato di libero scambio, una sorta di nuova “Nato del commercio”, fortemente voluta dalle istituzioni europee e americane per aumentare l’export transatlantico e contrastare gli effetti della crisi e il dominio commerciale della Cina. Di tempo, prima dell’accordo, ce n’è ancora molto, ma quel che si può prevedere per ora è che potrebbe avere un certo impatto sulla vita dei consumatori.
Obiettivo: uniformare le regole Europa e Stati Uniti sono due partner commerciali molto importanti l’uno per l’altro, ma che – in effetti – hanno ancora ampio spazio per aumentare i loro scambi: se ci pensate bene, infatti, sul nostro mercato non ci sono così tanti prodotti e servizi made in Usa e lo stesso vale Oltreoceano, dove c’è un certo protezionismo, soprattutto nel settore dei servizi (come quelli postali o di trasporto aereo e marittimo).
Ad ostacolare il libero scambio non sono tanto i dazi, già piuttosto bassi (eccetto che per l’agroalimentare), quanto le differenze delle leggi su sicurezza, ambiente e salute, che impediscono a molti beni e servizi made in Usa di essere ammessi in Ue e viceversa. È soprattutto su queste barriere che si vuole agire con il nuovo accordo, allo scopo di arrivare a standard comuni in molti settori: prodotti industriali, agricoli, servizi, appalti, investimenti, collaborazione su temi come ambiente, energia, proprietà intellettuale. Solo le produzioni audiovisive sono state escluse dalla trattativa a seguito del veto francese, dovuto alla prospettiva che la mastodontica Hollywood potesse schiacciare le tante piccole industrie cinematografiche dei Paesi Ue.
Beni e servizi: cosa può succedere Le compagnie aeree dell’Ue potrebbero, ad esempio, operare voli domestici negli Stati Uniti. Con standard di sicurezza comuni, si potrebbero esportare le auto prodotte nei due Paesi evitando ulteriori test o adattamenti che fanno lievitare il costo finale. E per quanto riguarda scuola, sanità e acqua? Le trattative sono aperte anche in questi settori-bene comune, ma cosa succederebbe alla nostra offerta pubblica con l’ingresso delle imprese americane? Ne resterebbe schiacciata?
Il terreno minato del cibo Altro settore che si prospetta tra i più difficili per l’accordo è l’agroalimentare. In generale siamo molto diversi: per alcuni aspetti l’Europa è molto più rigida (leggete il box sotto), per altri gli States ci superano. Ad esempio, l’etichetta nutrizionale – e con schema imposto – è già obbligatoria (in Ue solo nel 2014). Più restrizioni anche sui microrganismi ammessi negli alimenti, su frutta e verdura e prodotti bovini, come la bresaola (tuttora vietati per il morbo della “mucca pazza”). Ma se da un lato gli Usa sono abbastanza rigidi nell’import, dall’altro hanno non pochi problemi da risolvere dal punto di vista della sicurezza.
La voce dei consumatori americani Abbiamo parlato con Jane Halloran, Direttore delle Politiche Alimentari di Consumer Union, l’organizzazione che difende i consumatori statunitensi: ci ha raccontato quali sono le “big issue”, le grandi questioni in cui sono impegnati, ad esempio l’uso massiccio di antibiotici negli allevamenti di bestiame: “L’80% di questi farmaci venduti negli Usa viene dato agli animali – ci dice -. Mangiando la loro carne, il rischio è che anche il nostro organismo si abitui e che quindi gli antibiotici perdano il loro effetto sulle persone”.
Ci racconta, poi, della recente lotta contro il salmone geneticamente modificato, primo animale OGM destinato alla tavola, anche se “non ci sono ancora dati sufficientemente attendibili” sui rischi, dice Halloran denunciando oltretutto – la possibile assenza dell’indicazione “OGM” in etichetta.
C’è infine il problema della “tenderized steak”, la carne resa più tenera nelle industrie con grossi aghi meccanici: peccato che in questo modo il batterio E. Coli dalla superficie della bistecca possa andare dritto al suo interno, dove è più difficile debellarlo con la cottura. Cose che sembrano lontane da noi anni luce. Ma le distanze si accorciano, con questo accordo alle porte.
I due volti della medaglia Da un lato, dunque, ci sono prevedibili effetti positivi per questa alleanza: crescita dell’export e di conseguenza del Pil, dei posti di lavoro e del reddito (Bruxelles stima, nel suo scenario migliore, 545 euro in più nel reddito annuale di una famiglia di quattro persone). Ben vengano patti con simili risultati: il cieco protezionismo – per cui “solo ciò che è italiano va bene ed è di buona qualità” – non ci appartiene, anzi siamo favorevoli a ciò che può dare più possibilità di scelta e quindi maggiore risparmio per i consumatori.
Ma, attenzione, senza che questo implichi una rinuncia sul piano dei diritti. Nella classica logica del “do ut des” dei negoziati, per cui per ottenere bisognerà cedere, a farne le spese non possono essere i consumatori: l’Ue non può fare passi indietro – in nome di un’alleanza economica – su temi come la sicurezza alimentare, la salute, l’ambiente, i servizi pubblici. “No”, quindi, ad una omologazione delle nostre regole al ribasso, “no” a piegare l’accordo all’esclusivo interesse delle imprese, sia americane che europee, ad aumentare esportazioni e profitto. Bisogna sorvegliare Bruxelles assicura che non verranno negoziati gli esistenti livelli di protezione per i diritti dei cittadini. Ma bisognerà sorvegliare: l’Ue deve arrivare preparata e compatta, conducendo le trattative con trasparenza e apertura verso produttori, associazioni di categoria e consumatori. A pensarci ci sarà anche il Beuc, l’organizzazione dei consumatori europei, di cui siamo membri e che fa parte del Transatlantic Consumer Dialogue (TACD), il forum Usa-Ue che si occuperà di proteggere gli interessi dei cittadini di entrambe le sponde dell’Oceano.
Un esempio di quanto siamo diversi: questo medicinale da banco Usa, per problemi gastrointestinali, sembra quasi un succo di frutta. Un bimbo potrebbe facilmente esserne attratto: difficile che le nostre agenzie regolatorie potessero approvare questa confezione.
PRODOTTI ALIMENTARI, DUE MONDI DIVERSI: SU COSA NON DOVREMO CEDERE
Per alcune questioni abbiamo norme più stringenti degli Stati Uniti, che mirano a proteggere sicurezza e qualità degli alimenti. Ecco alcuni nodi che sarà difficile superare nelle trattative e su cui un’apertura dell’Ue a eventuali pressioni Usa sarebbe inaccettabile. Un esempio di Italian sounding: sono formaggi esteri ma tutto, dal nome alle immagini, fa pensare che siano italiani. E persino che si tratti di vero Parmigiano. OGM Nell’Ue c’è l’obbligo di etichettatura dei prodotti geneticamente modificati (OGM): pretendere l’informazione per avere diritto di scelta è stata una grande battaglia delle associazioni di consumatori. Negli Usa, non solo sono autorizzati più alimenti OGM, ma non è prevista neanche l’indicazione sulle confezioni.
IGIENIZZAZIONE DEL POLLO
È un trattamento, vietato in Europa, che prevede la distruzione dei batteri del pollame disinfettandone le carni. Nell’Ue, invece, si è sempre spinto per avere regole più rigorose negli allevamenti, cercando quindi di risolvere il problema dell’igiene a monte, senza l’uso di sostanze chimiche.
ORMONI E ANTIBIOTICI NELLA CARNE
La legislazione Usa è molto più permissiva sull’utilizzo di ormoni e antibiotici negli allevamenti, per aumentare la crescita, prevenire e curare infezioni. Nell’Ue i primi sono proibiti, mentre i secondi vengono usati secondo limiti più restrittivi. Leggete l’indagine a pagina 24 – sulla resistenza agli antibiotici e i suoi rischi -, con cui chiediamo ancora più severità.
PRODOTTI DOP E ITALIAN SOUNDING
Gli States non riconoscono la denominazione di origine, che per l’Ue è invece indice di valore e qualità. Il nome degli alimenti deve essere garanzia della loro provenienza: ma le nostre 249 tipicità – tra Dop e Igp – perderebbero la loro identità se si rinunciasse a questo caposaldo e fosse permesso importare, ad esempio, pomodori qualsiasi chiamati “San Marzano” o vini californiani che in etichetta sono “Chianti”. Da sempre, inoltre, siamo contro quei prodotti – molto diffusi negli Usa – che vogliono sembrare italiani attraverso nome o tricolore sulla confezione (AC 268, marzo 2013) . Nelle trattative per l’accordo con gli Usa, accetteremo che ne arrivino sempre di più?
Agrisole – 8 ottobre 2013