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Frodi in commercio. «Finto biologico», reato a largo raggio. In caso di etichettatura ingannevole irrilevanti conseguimento di un profitto e qualità nutritive

Il reato di frode in commercio per chi vende arance tradizionali spacciandole per biologiche scatta anche se il prezzo di vendita è uguale.  La Corte di cassazione, con la sentenza 35387 depositata ieri, punisce la “bugia” indipendentemente dal profitto e respinge il ricorso dell’amministratore unico e del gestore di fatto di una società ortofrutticola che acquistava arance da un’altra Srl e le metteva in commercio dopo averle etichettate. Proprio questo passaggio era finito nel mirino degli inquirenti.

In seguito a una perquisizione nei locali della società che faceva capo ai due imputati erano state sequestrate le etichette di una ditta, che si era poi costituita parte civile, che attestavano la produzione biologica di numerose confezioni di arance. Le stesse erano state poi trovate sugli scaffali di una nota catena di supermercati. Inutile per i ricorrenti negare sia il dolo, sia l’inganno al consumatore perché, secondo la tesi della difesa, oltre all’etichetta «neutra ed oscura per molti» non c’erano altre indicazioni sull’origine biologica della frutta. Il prezzo poi era pari al prodotto convenzionale.

Una tesi che la Suprema corte non condivide.

I giudici ricordano che l’etichetta che indica il contenuto e la vendita di un prodotto non conforme a quanto dichiarato integra il reato di frode in commercio e non un semplice illecito amministrativo.

Nè la condanna può essere evitata in nome di un mancato profitto. Gli elementi del profitto e del danno altrui sono del tutto estranei alla struttura di un reato, che si delinea quando all’ acquirente viene consegnata una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, a prescindere dal costo. I giudici della terza sezione penale precisano quindi che il finto biologico integra il reato anche se al compratore è stata consegnata una merce che ha un costo di produzione pari o addirittura superiore rispetto a quella dichiarata, né conta che il cibo, come nel caso esaminato, abbia lo stesso valore nutritivo. La Cassazione respinge anche un’ altra censura relativa alla riconosciuta legittimazione della ditta di certificazione a costituirsi parte civile. Per i giudici l’utilizzo illegittimo delle etichette su prodotti non corrispondenti a quelli la cui genuinità era stata verificata dall’azienda aveva certamente determinato un danno che risulta dimostrato. Anzi la Cassazione trova la somma, liquidata a titolo di provvisionale, assolutamente contenuta e certamente inferiore all’effettiva lesione subita dalla parte civile. Resta estraneo al ricorso in cassazione, perché assolto in Corte d’Appello l’amministratore unico della società che forniva le arance tradizionali, senza mentire sulla loro origine.

Patrizia Maciocchi – Il Sole 24 Ore – 25 agosto 2016 

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