C’era una volta il Made in Italy. Forse tornerà. Questa, almeno, è la speranza del governo che, con la semplice cancellazione di tre parole da una legge, punta a frenare l’espatrio dei marchi italiani della moda, dell’alimentare, del design, un flusso che negli anni della recessione si è via via trasformato in marea.
L’idea è quella di una diga, dunque, ma anche quella di far rientrare quei nomi che nel mondo vengono sempre identificati con il nostro Paese e che, in realtà, da tempo hanno preso casa all’estero, con tutto ciò che ne consegue in termini di investimenti, occupazione e gettito fiscale.
La frase chiave che al Consiglio dei ministri di martedì prossimo (salvo sorprese dell’ultim’ora) verrà soppressa nella normativa sulla tassazione dei redditi derivanti dai beni immateriali è questa: «Funzionalmente equivalenti ai brevetti ». Significa che le agevolazioni fiscali, fino ad oggi previste per i brevetti e, appunto, per i marchi «solo se funzionalmente equivalenti ai brevetti», verranno allargate ai marchi d’impresa tout court. Quindi anche a quelli «commerciali». Sembra la banale cancellazione di tre parole, ma nelle intenzioni dell’esecutivo si tratterebbe di una sorta di rivoluzione, considerando che solo negli ultimi anni, tanto per fare qualche esempio, sono volati all’estero – come proprietà o come sede – marchi quali Versace, Loro Piana, Valentino, Dolce&Gabbana oppure, passando al design, Poltrona Frau, Pozzi Ginori e all’agroalimentare, Pernigotti, Gancia, Garofalo…
Il provvedimento, frutto del lavoro di ministero dello Sviluppo Economico e ministero dell’Economia, come si legge nella relazione illustrativa «è finalizzato a rendere maggiormente attrattiva la misura per la tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzazione e cessione di beni immateriali (cosiddetto patent box ) e si colloca in un contesto internazionale rivolto ad una rivisitazione dei benfici fiscali legati alla proprietà intellettuale secondo le linee del Modified Nexus Approach proposto dall’Ocse».
L’intervento – spiega ancora la relazione illustrativa -, oltre ad ampliare l’ambito oggettivo di applicazione degli incentivi (in un altro comma, a rafforzare il concetto dell’allargamento della misura a tutti i marchi commerciali, viene prevista la soppressione delle parole: «Individuare le tipologie dei marchi escluse dall’ambito di applicazione del comma 34»), intende ricomprendere tra i costi rilevanti ai fini dell’agevolazione «anche quelli sostenuti per l’attività di ricerca e sviluppo affidata in outsourcing (oltre alle università, già indicate nella norma, le imprese diverse da quelle operanti nell’ambito dello stesso gruppo. ndr) e quelli sostenuti per l’acquisizione dei beni immateriali ammissibili al beneficio».
Gli incentivi, ricordiamolo, consistono nella esclusione dal reddito complessivo del 50% dei redditi provenienti dall’utilizzazione di marchi e brevetti e dalla loro concessione a terzi (30% nel 2015 e 40% nel 2016). Una volta a regime, l’agevolazione consentirà alle imprese di beneficiare dell’applicazione dell’imposta sul reddito delle società con un’aliquota effettiva del 13,75%. Certo, non una delle più generose nell’ambito europeo, ma come fanno notare al ministero dello Sviluppo Economico «a differenza di altri regimi europei, in Italia vengono detassate non solo le royalty pagate da terzi, ma tutti i redditi derivanti dallo sfruttamento di proprietà intellettuale, anche se sviluppata all’interno dell’azienda o da società del gruppo».
A quanto risulta, il ministero dello Sviluppo Economico avrebbe già riscontrato un forte interesse al rientro in patria da parte delle aziende che hanno trasferito marchi all’estero, e andrebbero lette in questo senso alcune recenti operazioni di riassetto societario operate da gruppi come Ferrero e Prada.
Ma solo il tempo dirà se davvero siamo alla vigilia di una nuova primavera del made in Italy. Il tempo, e la profondità della recessione.
Repubblica – 18 gennaio 2015