Triste vicenda, quella vissuta da due medici, ridimensionati professionalmente dal direttore della clinica universitaria in cui lavoravano da tempo: il primo ottiene soddisfazione dal Giudice del lavoro, il secondo è costretto a ‘fuggire’ verso un incarico di minor livello professionale.
Tutto ciò per la gestione ‘baronale’ del direttore, il cui comportamento vessatorio, con effetti negativi anche sulla qualità dei servizi della struttura, viene sanzionato a livello penale. Corresponsabile anche l’azienda ospedaliera per aver esercitato poco e male il proprio potere vigilanza.
Stop ai ‘baroni’ che gestiscono con potenza e con prepotenza le Università. A maggior ragione quando quelle gestioni hanno un duplice effetto negativo: primo, mortificare professionalmente e umanamente personale qualificato; secondo, arrecare danno alla produttività e all’efficacia di una struttura pubblica – comune un ospedale, ad esempio –, violando il principio fondamentale di collaborazione. E lo stop deve essere caratterizzato non solo da una condanna morale (Cassazione, sentenza 41215/12).
Dead man walking. Riflettori puntati, in questa vicenda, su una importante clinica universitaria nazionale, meglio sulle azioni poco eleganti – usiamo un eufemismo – del direttore, che isola e mortifica, volontariamente, due professionisti della clinica, arrivando anche a rallentare il «regolare funzionamento del servizio chirurgico» e, quindi, l’«intervento sui pazienti».
Nessun dubbio per i giudici, che, sia in primo che in secondo grado, condannano il direttore della clinica per il reato di abuso d’ufficio – chiamando in causa anche l’azienda ospedaliera per responsabilità civile – e aprono il fronte del «risarcimento dei danni» a favore dei due professionisti. A dare corpo a questa decisione elementi chiari: azioni finalizzate ad esautorare completamente due medici, col chiaro obiettivo di allontanarli dalla struttura – obiettivo raggiunto solo in parte –, azioni frutto di un «unico disegno punitivo di persone con le quali erano insorti reali (o presunti) dissidi personali, risolti con decisioni arbitrarie», testimoniato anche dall’affermazione del direttore della clinica, all’uscita da un colloquio col preside della Facoltà, sulla intenzione di creare dei «morti professionali».
Danni reali, condanna (non) morale. Epperò, secondo il direttore della clinica, la visione proposta dai giudici non è fondata: diversi gli appunti mossi nel ricorso in Cassazione, e tutti finalizzati, ovviamente, a un alleggerimento delle accuse, soprattutto per ciò che concerne i danni procurati ai professionisti esautorati.
Ma lo scopo della deminutio neanche viene sfiorato! Per i giudici, difatti, sono acclarati i «motivi ritorsivi, personali e professionali» e gli «atti emarginanti e vessatori» nei confronti dei due professionisti, come anche i «gravi e negativi effetti» sulle loro vite: non a caso, viene ricordato, un medico – quello che «aveva voluto partecipare al concorso di seconda fascia per due posti di professore associato, non aveva accettato il relativo risultato, che lo aveva visto soccombente, e aveva poi assunto iniziative sul piano giudiziario» – ottenne il reintegro solo a seguito di provvedimento del Giudice del lavoro, e l’altro medico «si rassegnò a richiedere un incarico più modesto».
Evidentissima, quindi, la «intenzionalità del dolo», da parte del direttore della clinica, anche tenendo presente la minaccia di fare «morti professionali» all’interno della struttura, e il fatto che a quella minaccia sono poi seguite le azioni ora passate ai ‘raggi X’ dalla giustizia.
Allo stesso tempo, però, i giudici sottolineano anche come il reato di abuso d’ufficio sia strettamente connesso ad alcune importanti violazioni di legge, ossia «violazione del dovere di collaborazione» (principio di riferimento per tutti coloro i quali operano nella struttura amministrativa) e violazione del principio del «divieto di favoritismi». E in questa vicenda è lapalissiano, concludono i giudici – confermando la pronuncia di secondo grado – che le scelte compiute dal direttore della clinica «erano finalizzate ad una gestione autoritaria e ‘baronale’ della clinica, sino alla punizione di due qualificatissimi professionisti, emarginandoli al fine di punirli ed indurli ad abbandonare la clinica per altre destinazioni».
Su un piano diverso, ma comunque rilevante, infine, viene anche collocata la responsabilità dell’azienda ospedaliera: anche su questo punto i giudici sono tranchant, stabilendo che la struttura non ha esercitato il proprio legittimo «potere di vigilanza».
Corriere.it – 24 ottobre 2012