di Andrea Priante. Dall’armadio alla lavastoviglie, dai muri freschi di tintura alle pentole da cucina. Fosse uno slogan pubblicitario sarebbe «Le Pfas sono tutte intorno a noi». E questo perché ciò che esce dai rubinetti delle nostre case, è soltanto l’ultimo anello della catena.
Da dove vengono
A partire dagli anni Cinquanta questi composti chimici sono stati utilizzati nei detersivi, nelle vernici e perfino nelle schiume antincendio. In seguito il loro impiego si è diffuso in tutto il mondo, visto che potevano tornare utili per realizzare un’infinità di cose, come i contenitori di cibo da fast-food, o i rivestimenti antiaderenti del Teflon, fino ai tessuti in Gore-Tex. E così, quando nel 2006 un progetto europeo (il «Perforce») ne trovò tracce nel Po nessuno sembrò stupirsene più di tanto. Cinque anni dopo, il ministero dell’ambiente decise comunque di vederci chiaro e stipulò una convenzione con il Cnr, per effettuare una ricerca sui nostri fiumi. Si scoprì che le Pfas si trovavano anche nel Brenta, nell’Adige, nel bacino del Fratta Gorzone e nella laguna di Venezia. Nei giorni scorsi si è chiusa la prima fase dello studio dell’Istituto superiore di Sanità e ora si sa per certo che anche l’acqua delle falde utilizzate dagli acquedotti che riforniscono alcune zone delle province di Vicenza, Verona e Padova, presenta tracce di queste sostanze, con tutti i rischi potenziali che derivano da una contaminazione di vaste dimensioni.
I pericoli
In realtà le sostanze perfluoroalchiliche, come tutti i composti, possono essere di vario tipo. I più diffusi – e quindi quelli che destano più preoccupazione – sono due acidi, Pfoa e Pfos. Le ricerche sui loro effetti, a livello internazionale, si contano sulle dita di una mano e proprio per questo l’indagine avviata dalla Regione Veneto e dall’Iss promette di fare da apripista in Italia. In realtà, del pericolo vero o presunto che esse rappresentano, se ne parlò la prima volta quasi quarant’anni fa: nel 1978 la «3M», il fabbricante originale del Pfoa, rivelò di averne trovato tracce nel sangue dei propri operai. Poi più nulla fino al 2002, quando il caso tornò all’attenzione della comunità scientifica internazionale.
I dati americani
Ci vollero ancora quattro anni perché il mondo, improvvisamente, si accorgesse del potenziale pericolo rappresentato dalle Pfas: nel 2006, dopo che l’Agenzia americana per la Protezione dell’Ambiente chiese alla aziende produttrici di ridurre le emissioni del 95 per cento entro il 2010. Nel frattempo gli abitanti della Virginia avevano promosso una class action contro l’azienda Dupont, che produceva Teflon e sversava nel fiume Ohio. Quell’acqua veniva utilizzata anche a scopi potabili e per questo la ditta fu costretta a finanziare la prima ricerca indipendente sugli effetti sanitari delle Pfas. Finì che gli esperti verificarono le conseguenze negative dell’ingestione di questi composti e la Dupont si ritrovò a pagare un risarcimento di 300milioni di dollari.
I limiti europei
Da quel momento anche aldiqua’ dell’Atlantico si cominciò a discutere circa l’opportunità di imporre limiti. Il primo sbarramento arrivò dieci anni fa, quando il parlamento europeo prese di mira le Pfos e vietò concentrazioni eccessive. Poi le contromisure si ampliarono anche alle altre molecole. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) indicò i primi limiti di sicurezza, ai quali ancora oggi si attengono gran parte degli Stati: Pfos inferiori a 300 nanogrammi per litro, mentre le rimanenti Pfas devono restare sotto i tremila nanogrammi.
Il caso Veneto
Nel luglio 2013, sulla base dei risultati della ricerca commissionata al Cnr, il Ministero della Salute inviò alla Regione Veneto il parere dell’Istituto Superiore di Sanità, dal quale emergeva che «non vi era un rischio immediato per la popolazione ma che, in applicazione del principio di precauzione, era necessario adottare adeguate misure per ridurre i rischi e controllare la contaminazione delle acque». Il problema è che l’Italia non aveva alcuna normativa sulle Pfas e così fu necessario aspettare il gennaio 2014, quando l’Iss fissò finalmente dei paletti poi comunicati a Venezia. Da allora, quindi, il Veneto ha delle regole costruite ad hoc e molto più restrittive di quelle suggerite dall Europa: Pfos sotto i 30 nanogrammi per litro, Pfas inferiori a 500. In mancanza di una legge nazionale, i vincoli valgono solo qui.
Il sangue contaminato
Quello dei limiti è un aspetto chiave dell’intera vicenda. Perché se ancora non è chiaro quali cibi rischiano di essere contaminati e quando risultano pericolosi, una cosa è certa: più Pfas sono presenti nell’acqua che beviamo, maggiori sono le quantità che finiscono nel nostro sangue. E una volta in circolo, per espellerle ci vogliono all’incirca cinque anni. Nel frattempo rischiano di minare la nostra salute. Ma anche su questo fronte, la letteratura scientifica è scarsa. Lo studio finanziato dalla Dupont ipotizzava correlazioni con diverse patologie: ipercolesterolemia, colite ulcerosa, malattie tiroidee, cancro del testicolo, tumori del rene, ipertensione in gravidanza e eclampsia. Molti esperti, però, frenano: Loredana Musmeci, direttrice del Dipartimento ambiente dell’Iss, è contraria all’embargo sui prodotti agricoli dato che «secondo i primi test solo una minima percentuale degli alimenti presenta livelli di Pfas apprezzabili».
Test medici gratis
Nell’attesa che gli scienziati si mettano d’accordo, non resta che tenere monitorato il proprio stato di salute. La Regione ha promesso un mastodontico screening sanitario che coinvolgerà i quasi 250mila veneti residenti nei trentuno comuni considerati a rischio. L’acqua che esce dai rubinetti delle loro abitazioni ora rispetta i limiti (grazie ai filtri a carbone degli acquedotti) ma fino al 2013 era contaminata. E cosi, a seconda del quantitativo di Pfas nel sangue, potranno sottoporsi gratuitamente a diversi test: colesterolo, transaminasi, enzimi del fegato e del rene, markers tumorali…
L’azienda nel mirino
Quanti si scopriranno malati? E su chi ricadranno le colpe? Secondo l’Arpav l’unica azienda che produceva Pfas è Miteni, che ha sede a Trissino e rientra nell’orbita di una multinazionale tedesca. Ma la società si difende, dice di non produrre Pfos e Pfoa dal 2011 e punta il dito contro le altre industrie della zona. La verità la stabiliranno i magistrati visto che la procura di Vicenza ha aperto un’inchiesta. Nel frattempo vale quanto sostiene il segretario regionale della Sanità, Domenico Mantoan, che vive a Brendola, uno dei Comuni contaminati, e si è ritrovato nel sangue valori elevatissimi di Pfas: «Per anni abbiamo costruito ricchezza, grazie a fabbriche e sfruttamento del territorio. A quanto parte, ora la natura ci sta presentando il conto…».
Il Corriere del Veneto – 2 maggio 2016