La manovra deve definire la copertura per il rinnovo dei contratti pubblici, ma le risorse sono solo la prima incognita. Bisogna infatti fare i conti con la riforma Brunetta, “dimenticata” ma in vigore, che chiede di ridurre i comparti pubblici da 12 a quattro (sindacati e Aran cominceranno a discuterne domani) e di dividere i dipendenti in tre fasce di merito. Per chi guadagna intorno ai 24mila euro, poi, il rinnovo può erodere il bonus da 80 euro. La riforma Brunetta, che dal 2010 avrebbe dovuto rivoluzionare la Pubblica amministrazione, è inciampata sul nascere nel blocco dei rinnovi contrattuali, introdotto proprio quell’anno dalla manovra estiva targata Tremonti per raffreddare la febbre della finanza pubblica. «Valutazione», «meritocrazia» e «semplificazione» sono state messe da parte in tutta fretta dopo aver campeggiato nel dibattito pubblico per mesi, ma ora è il caso di rinfrescarsi la memoria.
Per una ragione semplice: la riforma è in vigore e il rinnovo dei contratti che la manovra deve far ripartire come impone la Corte costituzionale ne dovrà tenere conto. Con più di un problema, che comincerà a essere affrontato già domani pomeriggio nella prima riunione all’Aran.
Il punto di partenza, com’è ovvio dopo sei anni di buste paga congelate, sono i soldi. Tutto lascia supporre che non siano molti, anche perché il Governo non ha alcuna intenzione di recuperare anche solo in parte i mancati aumenti determinati dal blocco. Nella sentenza 178/2015 la stessa Corte costituzionale ha “salvato” il vecchio congelamento contrattuale (che escludeva recuperi sul passato), bocciando solo l’idea che potesse ripetersi all’infinito sul presupposto di una finanza pubblica che continua a essere fragile. Con un’inflazione vicina allo zero, quindi, la dote non sarà enorme, al punto che le stime sono scese fino a quota 3-400 milioni: spalmati in modo omogeneo su tutti, darebbero poco più di 10 euro lordi a testa al mese.
Il merito
Ma una distribuzione lineare delle risorse non è possibile. Proprio qui interviene infatti la riforma Brunetta, che impone di destinare la «quota prevalente» del trattamento accessorio alle performance individuali di ogni dipendente, e di dividere l’organico di ogni ufficio in tre fasce di merito: alla prima, composta dal 25% del personale, deve andare il 50% dei “premi”, l’altro 50% deve andare alla seconda, in cui va collocato il 50% dei dipendenti, mentre l’ultimo quarto del personale deve rinunciare a queste somme. Ma chi dà i voti per assegnare ogni dipendente pubblico a ciascuna delle tre fasce, e sulla base di quali parametri? Il meccanismo è tutto da costruire, e trovare la quadra con la contrattazione integrativa non sarà semplice, soprattutto se si parte da un rinnovo ultra-leggero sul piano degli importi.
I comparti
Ma c’è un altro problema, ancora più urgente perché va affrontato prima di avviare qualsiasi trattativa. Il tema, al centro della riunione di domani, si nasconde sotto l’etichetta tecnica di «riduzione dei comparti», ma può produrre parecchie grane molto concrete. Anche in questo caso, tutto nasce dalla riforma Brunetta, che nel tentativo di snellire le pratiche contrattuali e di sfoltire il panorama delle sigle sindacali ha deciso di riunire in quattro grandi comparti i 12 in cui è oggi diviso il pubblico impiego. Anche questo lavoro è stato bloccato sul nascere dallo stop ai rinnovi contrattuali. Il 1° ottobre, il ministro della Pa, Marianna Madia, ha scritto all’Aran ricordando che «per rendere possibile la formale riapertura della contrattazione» è necessario «dare tempestiva attuazione» alla nuova geografia dei comparti, anche «valutando la percorribilità di soluzioni innovative» per «giungere presto a un’intesa» con i sindacati.
L’effetto sugli stipendi
Di “innovazione” sembra esserci bisogno, perché il nodo è di quelli intricati. Le ipotesi formulate a suo tempo, e rimaste pura accademia, prospetterebbero un “compartone” in cui riunire tutte le amministrazioni statali, dai ministeri alle agenzie fiscali fino a Inps, Aci e agli altri enti pubblici; un altro che abbraccia per omogeneità di compiti Regioni e sanità; un terzo nel quale rimarrebbero gli enti locali e un ultimo dedicato a scuola e università. Passare dalla carta geografica a quella dei contratti, però, è complicato: nel compartone statale, per esempio, confluirebbero realtà che oggi hanno differenze enormi nella retribuzione media, spiegabili con le diverse condizioni di lavoro che hanno costruito nei decenni storie contrattuali a sé: le tabelle della Ragioneria generale dicono che si va dai 34.821 euro lordi all’anno delle voci stipendiali medie di alcuni enti pubblici ai 22.977 dei ministeri, passando per i 30.948 di Palazzo Chigi e i 24.043 delle agenzie fiscali, e le differenze crescono se si conta anche l’accessorio. Come si fa a scrivere regole comuni partendo da numeri così diversi? Con poche risorse sul piatto, la “soluzione” potrebbe prevedere di lasciare tutto più o meno com’è ora, utilizzando i prossimi rinnovi per avvicinare progressivamente le condizioni dei diversi settori. In questo modo, però, i comparti oggi più “ricchi” rischierebbero di trovarsi condannati a buste paga ferme per molti anni.
Sindacati «in lotta»
Un po’ di flessibilità potrebbe essere garantita dalla divisione dei nuovi comparti in “settori”, per «salvaguardare le peculiarità di istituti non riconducibili a una regolamentazione contrattuale comune» come spiega la stessa Madia nella lettera all’Aran. Questi settori, però, non tornerebbero utili a chi volesse risolvere gattopardescamente l’altro problema, quello dei sindacati che nei nuovi comparti non raggiungerebbero il numero minimo di tessere e di voti per essere considerati rappresentativi e potersi dunque sedere al tavolo. A Palazzo Chigi, dove lavorano 2.300 persone, l’ultimo contratto è stato firmato da sette sigle, per i ministeri le trattative sono state condotte da sei organizzazioni, stesso numero nei ministeri, mentre la situazione è ancora più intricata negli enti locali e soprattutto negli enti pubblici non economici. Per essere «rappresentativo», un sindacato deve raggiungere il tasso del 5% nella media fra iscritti e voti nelle Rsu, ed è ovvio che se la base di calcolo si allarga sale anche il numero di adesioni necessarie a superare la soglia: i confederali non avrebbero problemi, ma per i sindacati che si occupano di singole categorie il salto sarebbe spesso impossibile, e la sola ipotesi di partire davvero con la riforma sta scaldando il clima con annunci di battaglie e ricorsi.
L’incrocio con gli 80 euro
Solo dopo aver superato queste curve la macchina della contrattazione potrà affrontare davvero la questione degli effetti in busta paga del rinnovo, che dovrà fare i conti anche con il bonus 80 euro. Tra 24mila e 26mila euro di reddito lordo, fascia in cui si colloca una fetta importante dei dipendenti pubblici, il bonus scende all’aumentare dell’imponibile, con un meccanismo che per gli interessati rischia di tagliare in modo consistente le ricadute reali del rinnovo.
In pratica, il decalage del bonus taglierebbe il netto reale offerto in più dai nuovi contratti di una quota che oscilla dal 48 al 56% a seconda della cifra, e nei giorni scorsi la Confsal-Unsa, uno dei sindacati del pubblico impiego, ha chiesto che si trovi il modo di “sterilizzare” gli effetti di questo incrocio. Ipotesi non semplice, che oltre a trasformare la busta paga in un mastermind finirebbe per fare bonus diversi a chi ha redditi uguali, ma l’alternativa è quella che già il sindacato comincia a chiamare «beffa», scaldando ulteriormente il clima che circonda il rinnovo dei contratti. (Gianni Trovati)
L’analisi. Le modalità del lavoro contano più delle risorse
Il mondo del lavoro, sia pubblico sia privato, si trova a dover affrontare a breve un appuntamento sempre più complesso qual è il rinnovo contrattuale. Un rinnovo che non è connesso solo a un problema di risorse, ma a esigenze di riordino del sistema e di disciplina di istituti che il legislatore ha voluto rinviare alla contrattazione. Il settore pubblico si trova oggi a dover affrontare il rinnovo contrattuale in un contesto di spending review, e soprattutto dopo il «decreto Brunetta» (Dlgs 150/2009) che ha radicalmente rivisto il rapporto tra legge e contratto. Non è solo un problema finanziario, o non lo dovrebbe essere. Servirebbe allora far emergere, come avviene nel privato, le esigenze del datore di lavoro di miglioramento dei servizi. Ma il modo in cui il settore pubblico ha gestito il contratto collettivo ha portato il legislatore, diversamente da quanto sta avvenendo nel privato, a ridurre l’autonomia delle parti, considerando il secondo livello di contrattazione un “sorvegliato speciale” e non lo strumento per coniugare retribuzione, efficienza e occupazione. Eppure il secondo livello potrebbe essere lo strumento giusto anche per la Pa, se non avesse dato le pessime prove da tutti conosciute, per accompagnare processi di razionalizzazione e riconoscere la maggiore produttività dei lavoratori. Il rinnovo deve fare i conti con la riduzione dei comparti, che genera non pochi dolori ad alcune sindacati sulla rappresentatività. Ma poi deve affrontare gli scogli rinviati da anni. C’è il grande tema della retribuzione accessoria e della gestione dei fondi, oggetto più di denunce della Corte dei conti che di studi sul management. Gli istituti sulla performace del “decreto Brunetta” sono rimasti sulla carta, iniziando dalla discutibile norma sulle tre fasce per andare ai premi. A monte si pone il problema che di fatto la retribuzione accessoria non è mai stata subordinata a valutazione ma considerata, a partire dalla dirigenza, sostanzialmente fissa e continuativa. La prossima contrattazione potrebbe essere l’occasione per azzerare un’esperienza infelice, consolidando una parte della retribuzione accessoria e gestendo il resto in maniera veramente selettiva: come disse già il legislatore nel 1993, «secondo i poteri del privato datore di lavoro». Anche le forme di partecipazione sindacale potrebbero essere meno ambigue e più semplici. Infine, vi sono tutti i rinvii che la normativa sui contratti flessibili fa alla contrattazione collettiva. Difficile ormai recuperare l’occasione offerta dal Dlgs 276/2003 di armonizzare nel settore pubblico le norme di diritto del lavoro pensate per il privato, ma, in attesa della delega contenuta all’articolo 17 della riforma Madia, Si potrebbero disciplinare le esigenze di flessibilità connesse ad esempio al lavoro a tempo determinato, superando le prassi note di rinnovi e durate illegittime. Proprio in mancanza di risorse adeguate, il prossimo rinnovo potrebbe essere l’occasione per non esaurire il dibattito in un problema di stanziamenti , ma per organizzare al meglio il lavoro. Non sarebbe solo un approccio aziendale, ma anche un segnale importante di fiducia nel settore pubblico. (Francesco Verbaro)
Il Sole 24 Ore – 12 ottobre 2015