C’è molta omologazione sulla Terra per quanto riguarda l’alimentazione. Troppa, e in crescita. L’allarme lanciato da anni da studiosi e ambientalisti assume ora contorni più definiti – e se possibile preoccupanti – grazie a un grande studio pubblicato su PNAS, che ha preso in esame i dati della FAO relativi a 50 diverse sementi coltivate in 150 paesi dal 1961 al 2209, quantificando l’entità del disastro legato alla standardizzazione della dieta umana.
Gli autori, ricercatori dell’International Center for Tropical Agriculture (CIAT, membro del consorzio CGIAR), hanno messo in luce, numeri alla mano, come l’umanità faccia sempre maggior affidamento su poche varietà di specie: il grano è la principale coltura nel 97,4% dei paesi, il riso nel 90,8%, la soia nel 74,3%; accanto a esse stanno crescendo d’importanza le coltivazioni di piante ad alto contenuto energetico come le palme da olio e i girasoli. Ma non ci sono quasi più, insieme a queste piante coltivate da millenni, quelle tradizionali e utilizzate dai nostri predecessori, tra le quali, per esempio, il sorgo, il miglio, la segale, le patate dolci, la manioca e lo yam per citare solo le più note. Il panorama diventa poi ancora più preoccupante se si prendono in considerazione le innumerevoli varietà locali che hanno sfamato generazioni di indigeni a tutte le latitudini come, per esempio, l’Oca in Sud America, oggi quasi scomparsa.
Gli effetti sono molto gravi sui terreni, sempre più poveri per assenza di rotazione e per lo sfruttamento intensivo e industriale, e sulle stesse piante, sempre più vulnerabili alla siccità
Questo cambiamento ha effetti molto gravi sui terreni, che diventano sempre più poveri per assenza di rotazione e per lo sfruttamento intensivo e industriale, e sulle stesse piante, che sono sempre più vulnerabili alla siccità, alle malattie e ai parassiti i quali, grazie alla globalizzazione del commercio in mano a poche mega multinazionali, si diffondono molto più rapidamente che in passato. «Il prezzo di un problema grave a una delle colture dominanti – commenta Luigi Guarino, coautore dello studio e ricercatore delGlobal Crop Diversity Trust che ha sede in Germania – è veramente alto, e lo sarà sempre di più, proprio perché esistono poche alternative in caso di epidemie a una delle colture principali».
Tra i fenomeni negativi in corso ve ne è poi uno paradossale: mentre la dieta di tutto il mondo va verso l’omogeneità, quella di gran parte dell’Africa e di parte dell’Asia ha ampliato il suo menu, affiancando agli alimenti tradizionali quelli globalizzati. Ma non si tratta di una buona notizia, perché oggi milioni di persone in più rispetto al passato, anche grazie all’aumento del reddito, all’urbanizzazione e alle conoscenze (maturate anche attraverso le pubblicità) apprese in rete, cercano alimenti ricchi di calorie, proteine animali, zuccheri, grassi.
Si hanno così conseguenze disastrose, anche dal punto di vista della salute, come dimostra la diffusione crescente delle malattie cosiddette da benessere, legati agli eccessi nel consumo di cibi altamente lavorati. Il tutto agevolato e incrementato dalle multinazionali alimentari e del fast food, che fanno di tutto per sostenere il trend, visto che in alcuni paesi occidentali (e soprattutto del Nord Europa) è in calo.
er non essere soltanto critici, tuttavia, gli autori forniscono una chiave di lettura costruttiva, attraverso cinque direttive di indirizzo che, a loro giudizio, potrebbero far invertire la tendenza in atto:
– Promuovere attivamente l’adozione di molte più varietà di sementi in tutto il mondo, per aumentare la varietà genetica, ridurre in questo modo la vulnerabilità di tutto il sistema alimentare e prepararsi meglio alle nuove sfide rappresentate dal mutamento climatico, dall’aumento della domanda di cibo, dalla scarsità d’acqua e dall’impoverimento dei terreni. Questo tipo di intervento è particolarmente urgente per specie molto diffuse quali la banana, di cui si coltivano pochissime varietà, e che è ad alto rischio estinzione.
– Supportare la conservazione e l’utilizzo di diverse risorse genetiche, comprese quelle tradizionali coltivate dai contadini indipendenti e quelle selvatiche, oggi non utilizzate, ma molto vicine geneticamente a quelle impiegate; implementare il Treaty on Plant Genetic Resources for Food and Agriculture per salvaguardare in modo più efficiente le varietà genetiche a livello internazionale, e aumentare i finanziamenti sulla ricerca per la creazione di nuovi ibridi e il rafforzamento delle specie oggi meno usate.
Migliorare la qualità nutrizionale dei principali tipi di piante consumate oggi, per esempio ibridando le specie per incrementare il contenuto di ferro o zinco o vitamine
– Migliorare la qualità nutrizionale dei principali tipi di piante consumate oggi, per esempio ibridando le specie per incrementare il contenuto di ferro o zinco o vitamine, che diventerebbero così più facilmente disponibili.
– Promuovere le colture alternative caratterizzate da una particolare resistenza e da un alto valore nutritivo, rendendole competitive sui mercati internazionali. Tra le misure utili in tal senso vi sono la valorizzazione delle specie neglette o sottoutilizzate, il sostegno alla loro produzione (anche, se necessario, attraverso l’ibridazione) e le campagne di informazione in merito rivolte alla popolazione.
– Aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica sull’importanza di avere una dieta sana, ma anche di nutrirsi in modo consapevole rispetto alla fonte degli alimenti.
«Avere un’alimentazione più variata a livello globale – hanno concluso gli autori – significa non soltanto avere più possibilità di assicurare il cibo ai nove miliardi di persone che popoleranno la terra entro il 2050, ma anche poter combattere la fame, la malnutrizione e l’over-alimentazione e, insieme, proteggere le nostre fonti alimentari dall’impatto che avranno i mutamenti climatici».
Agnese Codignola – Il Fatto alimentare – 30 marzo 2014