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Greenpeace svela i segreti del Ttip: pressioni da Washington per abbassare la sicurezza dei consumatori e dell’ambiente. I governi smentiscono. Precisazioni di Malmström

Anna Lombardi. Le regole europee a tutela della salute e dell’ambiente non piacciono agli americani. O almeno a quei negoziatori che da tre anni trattano con i loro omologhi del Vecchio Continente per stabilire le regole del Ttip, trattato di libero scambio tra Ue e Usa, che dovrebbe creare un mercatone unico per 850 milioni di persone.

Si tratterebbe della più grande area di libero scambio del pianeta, dove far affari per più di 100 miliardi di dollari, attraverso regole unitarie e un drastico abbassamento dei dazi. Lo rivelano i documenti riservati ottenuti dal braccio olandese dell’associazione ambientalista Greenpeace con l’aiuto di un network giornalistico investigativo, messi ieri online su un sito appositamente creato e dal nome decisamente inequivocabile,

TTIP- leaks. org.

I “leaks” sono note prese dai negoziatori (i lavori si svolgono rigorosamente a porte chiuse) raccolte in 248 pagine divise in 13 capitoli dove si svela ciò che molti già sospettavano. Ovvero, che il negoziato va a rilento proprio per le fortissime pressioni delle lobby americane, le cui richieste sono perfino più radicali di quel che si pensava e proprio per questo particolarmente indigeste per gli europei, ambientalisti e non, perché in molti casi mettono in discussione le sovranità dei paesi Ue.

L’asticella delle pretese sul tavolo è infatti altissima. Si chiedono, ad esempio, consultazioni preventive con le industrie Usa nel caso di nuove norme Ue che potrebbero riguardarle: sottoponendo di fatto le leggi europee ad una sorta di beneplacito americano. E poi l’odioso ritorno ai test cosmetici sugli animali che dopo una durissima battaglia in Europa non si eseguono più dal 2013. Ancora, la possibilità di introdurre Ogm. La richiesta di standard meno rigidi nell’uso di pesticidi e in generale in materia di sicurezza alimentare. E l’addio ai marchi d’origine come Chianti, Marsala, Champagne e così via, che gli americani potrebbero saccheggiare a piacimento. Proprio questa prospettiva di “liberi tutti” ha spinto i responsabili di Greenpeace ad usare lo strumento del “leaks” per scongiurarlo: «Volevamo accendere il dibattito ». Ma per la responsabile del negoziato, la Commissaria al Commercio Cecilia Malmström, liberale svedese, «è una tempesta in un bicchiere d’acqua. Le richieste pubblicate non sono la base di nessun accordo. È normale che in un negoziato si parta dal punto più alto per raggiungere il maggior numero di obiettivi possibile». Ma ora in tanti chiedono che il negoziato sia interrotto, attraverso l’hashtag # ttipleak lanciato ieri da Greenpeace. «Dobbiamo evitare che si arrivi a un compromesso che spiani la strada a una gara al ribasso degli standard ambientali, di salute e di tutela dei consumatori», ha detto il direttore di Greenpaece Ue Jorgo Riss. Ma Obama vuole chiuderlo prima della fine del suo mandato. E in una nota la Casa Bianca fa sapere di non essere preoccupata per la fuga di notizie: «Non cambieranno la tabella di marcia delle trattative».

L’EUROPA

Cibi doc e appalti i diktat che l’Ue non può accettare. Dagli Ogm agli standard di sicurezza Bruxelles respinge l’accordo “light”

Andrea Bonanni. L’ultima tornata di negoziati, la tredicesima, si è tenuta a New York. E ha confermato che, su alcuni punti chiave, le distanze restano «incolmabili », come scrive il rapporto della Commissione rivelato da Greenpeace. È semplicemente impensabile poterle risolvere in tempo per arrivare ad una firma del Ttip (Transtlantic Trade and Investment Partnership), quello che avrebbe dovuto essere «il Trattato del secolo», prima che Obama lasci la Casa Bianca. La scelta per gli europei è dunque quella tra abbandonare il negoziato oppure, come suggeriscono gli americani, di ripiegare su un accordo “light”, lasciando da parte le questioni più controverse. Ma questa tesi, sostenuta da Obama che è venuto ad Hannover per far pressioni sui principali alleati europei, non sembra convincere né Parigi né Berlino. In effetti, al momento, i principali ostacoli riguardano una serie di veti espressi dai negoziatori Usa. Accettare un “Ttip light” equivarrebbe dunque, per gli europei, a piegarsi ad un accordo squilibrato in favore degli Usa che otterrebbero molto senza concedere quasi nulla.

I principali “non possumus” che bloccano le trattative sono quattro: tre dagli americani e uno dagli europei. Il primo riguarda l’indisponibilità degli Usa a uniformare la regolamentazione dei mercati finanziari. Il secondo, è il “Buy American Act”, che impone al governo americano e alle agenzie finanziate con denaro pubblico di dare la preferenza ai prodotti made in Usa. Questa norma, a cui Washington non intende rinunciare, di fatto rende impossibile la liberalizzazione degli scambi nel settore cruciale degli appalti pubblici.

Il terzo grande ostacolo è la denominazione di origine dei prodotti agroalimentari. Per l’Italia, vittima eccellente di contraffazioni made in Usa, è una questione irrinunciabile. Ma gli Stati Uniti non ne vogliono sentir parlare. Washington lamenta già ora un deficit commerciale nel settore agroalimentare di 12 miliardi di dollari e teme che l’obbligo di rispettare la denominazione di origine potrebbe farlo salire alle stelle con danni irreparabili per la propria industria e per la propria agricoltura.

Il quarto punto riguarda la tutela dei consumatori. E qui sono gli europei che non intendono rinunciare ai loro standard. Dai “polli alla candeggina”, alla carne agli ormoni, ai cibi contenenti Ogm, ai cosmetici e alle creme solari, i governi Ue non vogliono aprire i loro mercati a prodotti che in Usa sono considerati perfettamente sicuri ma che da noi vengono guardati con sospetto.

Scartate le ipotesi di un accordo da chiudere in tempi brevi, pesa sui leader europei la responsabilità di rinunciare ad una di quelle occasioni che raramente si presentano nella storia. Come ha spiegato la cancelliera Merkel, un’intesa di questa portata avrebbe infatti il merito di imporre al mondo una serie di standard industriali, commerciali, legali e sanitari, propri di società avanzate come quella europea e americana. Senza il Ttip, prima o poi la Cina e le altre potenze emergenti imporrano i propri standard, certo meno elevati.

Ma i tempi sono ormai probabilmente troppo stretti. Secondo Alessia Mosca, eurodeputata dei Socialisti e Democratici, in caso di vittoria della Clinton ci sarebbe forse l’opportunità di chiudere comunque «un buon accordo» nonostante la freddezza da lei dimostrata in campagna elettorale. Tuttavia nel 2017 ci saranno le elezioni francesi e tedesche. E già Hollande ha irrigidito le sue posizioni. La sensazione è che, se va bene, nel 2018 si dovrà ricominciare tutto da capo. O quasi.

GLI STATI UNITI

Ecco i primi dubbi “Un disastro per i lavoratori”. I candidati alle presidenziali “Un regalo alle multinazionali”

Federico Rampini. Anche l’America ci ripensa. La culla del neoliberismo è assalita dai dubbi. In questa campagna elettorale nessun candidato osa difendere i trattati di libero scambio. Ripudiati da destra e da sinistra, con argomenti simili. Dice Hillary Clinton: «Voglio essere sicura di poter guardare negli occhi un americano del ceto medio e dirgli: questo trattato aumenterà il tuo stipendio. Purtroppo non posso dirlo». L’ha preceduta Bernie Sanders, ancora più esplicito: «Nella storia trattati di questo genere sono stati scritti su misura per i banchieri, per le multinazionali, le case farmaceutiche; sono sempre stati un disastro per i lavoratori americani». Più duro di tutti, Donald Trump vuole stracciare perfino il padre di tutti gli accordi di apertura delle frontiere, quel Nafta (North American Free Trade Agreement) che entrò in vigore sotto Bill Clinton nel 1994, creò il grande mercato unico tra Usa, Canada e Messico, spianò la strada alla successiva cooptazione della Cina negli scambi mondiali con il Wto.

Per la precisione le polemiche fin qui si concentrano sull’altro mega-trattato, il Tpp (Trans Pacific Partnership) che Obama ha siglato con le maggiori nazioni dell’Asia-Pacifico esclusa la Cina. Le ragioni sono due. Anzitutto, l’iter del Tpp è più avanti: già firmato da 12 governi è entrato nella fase delle ratifiche nazionali. Poi, in Asia gli Stati Uniti si confrontano con paesi che (tranne il Giappone) hanno regole meno avanzate per i diritti dei lavoratori, la protezione del consumatore, l’ambiente. Da qui l’accusa che si tratti di accordi al ribasso, che fanno arretrare gli Stati Uniti. È difficile sostenere la stessa cosa per il Ttip: l’Ue in molti campi è più avanti degli Usa, dai diritti all’ambiente. Eppure anche qui soffiano venti contrari. La previsione è questa: o entro fine anno Obama convince gli europei a firmare, o dal 2017 il Ttip rischia di finire su un binario morto.

Sembra paradossale che il Ttip sia osteggiato dalle due sponde dell’Atlantico. Se una parte delle opinioni pubbliche europee è convinto che questo trattato svenderebbe le loro conquiste e aprirebbe nuovi spazi agli Stati Uniti, almeno gli americani dovrebbero sostenerlo, no? È possibile che un’apertura ulteriore delle frontiere si traduca in un gioco a somma negativa, in cui tutti perdono?

In effetti non è impossibile, se prendiamo per buona la tesi redistributiva di Sanders: la globalizzazione con le regole attuali rafforza i capitalisti contro i lavoratori, le multinazionali contro i consumatori. È una tesi che ha l’avallo di uno dei massimi studiosi del commercio internazionale, il premio Nobel dell’economia Paul Krugman. Pur essendo pro-Hillary, sulla globalizzazione Krugman è diventato più critico. «Un’analisi economica seria — sostiene Krugman — non conferma la visione idilliaca presentata dalle élite, secondo cui siamo tutti beneficiari negli scambi internazionali ». Krugman aggiunge però che il protezionismo non è l’unica alternativa. Spiega che «molti danni associati con la globalizzazione sono in realtà la conseguenze di scelte politiche». Punta il dito su tre fattori: il ridimensionamento dei sindacati, i tagli allo Stato sociale, le politiche fiscali a favore delle grandi imprese. Krugman indica come modelli alternativi i paesi scandinavi. Seguendolo alla lettera gli americani dovrebbero aderire con entusiasmo al Ttip. Ma gli scettici obiettano che questi trattati troppo complessi, troppo voluminosi, sono il terreno ideale per occultare nuovi regali alle lobby. Anche su questo terreno, le critiche americane riecheggiano spesso quelle europee.

#TTIPleaks: la Commissaria Malmström risponde

Questo il post della Commissaria per il Commercio Cecilia Malmström in risposta alle presunte fughe di notizie sui negoziati TTIP.

Questa mattina molti organi d’informazione segnalano presunte fughe di notizie dai nostri negoziati con gli Stati Uniti sul partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP). Poiché stanno circolando diversi malintesi, è utile precisare alcune cose.

In primo luogo, e contrariamente a quanto molti sembrano ritenere, i cosiddetti “testi consolidati” in un negoziato commerciale non sono sinonimo di risultati, ma rispecchiano soltanto la posizione negoziale di ciascuna parte. D’altro canto non deve sorprendere che vi siano settori in cui l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno punti di vista diversi. Come ho sottolineato su questo blog la settimana scorsa, vi sono settori dei negoziati sul TTIP in cui abbiamo fatto molta strada, ma in altri casi non ci troviamo d’accordo.

È assolutamente normale che entrambe le parti in un negoziato vogliano conseguire il maggior numero di obiettivi possibili. Ciò non significa che l’altra parte debba cedere a tali richieste né che le parti si incontreranno a metà strada. Nei settori in cui le divergenze sono incolmabili, semplicemente non si raggiunge alcun accordo. In tal senso, molti dei titoli allarmistici di oggi sono una tempesta in un bicchier d’acqua.

L’anno scorso la Commissione europea ha reso i negoziati trasparenti in modo da rendere pubbliche tutte le nostre posizioni. Dopo ogni tornata negoziale, pubblichiamo le relative relazioni, i documenti di sintesi e le proposte testuali. In questo modo le posizioni dell’UE sono ben note e non c’è nulla di nuovo.

Prendiamo ad esempio la nostra proposta sulla cooperazione in campo normativo. La nostra ultima proposta, introdotta durante la tornata di febbraio e resa pubblica subito dopo, include riferimenti al principio di precauzione e richiama il nostro sistema consolidato di procedure di consultazione pubblica aperte a tutti gli stakeholder.

E no, l’industria dell’UE non ha un accesso privilegiato alle posizioni negoziali dell’UE rispetto agli altri stakeholder. Teniamo conto delle comunicazioni dell’industria, ma lo stesso vale per quelle dei sindacati, dei gruppi di consumatori, delle organizzazioni che si occupano di salute o ambiente, che sono tutte rappresentate nel gruppo consultivo che incontra regolarmente la nostra squadra di negoziatori.

Va detto e ripetuto: nessun accordo commerciale dell’UE ridurrà il livello di protezione dei consumatori e dell’ambiente o la sicurezza alimentare. Gli accordi commerciali non modificheranno la nostra legislazione sugli OGM, su come produrre carni bovine sicure o su come proteggere l’ambiente.

Gli accordi commerciali dell’UE possono cambiare le norme solo per renderle più forti. Ad esempio, possiamo concordare con un partner che le regole sulla sicurezza dei medicinali siano rese più severe, ma non che siano indebolite. Nessun accordo commerciale limiterà la nostra capacità di legiferare nel futuro per proteggere i nostri cittadini o l’ambiente.

Abbassare gli standard non è il mio lavoro. Ho un chiaro mandato negoziale, che è stato dato alla Commissione dai 28 governi dell’UE e che descrive chiaramente come deve essere un accordo riuscito e quali sono i nostri termini non negoziabili. E come sempre alla fine i risultati del negoziato dovranno essere approvati dai 28 Stati membri e dal Parlamento prima di diventare realtà.

Repubblica e Commissione europea – 3 maggio 2016 

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