Il ministro dell’Economia: “Forse esisteva un caso Italia, ora non più”. “Abbiamo fatto molto, no alla patrimoniale. Intervenire sui mercati del debito sovrano per stabilizzarli è dentro il mandato Bce. Tutti conoscono la gravità della crisi, ognuno pensa che a cambiare debbano essere gli altri
“L’ITALIA può uscire da questa crisi, ma deve proseguire sulla strada delle riforme. Il governo farà tutto ciò che serve per mettere in sicurezza il Paese. In autunno avremo due appuntamenti importanti: il piano pluriennale di rientro dal debito pubblico che abbiamo già avviato, e la seconda fase della spending review per efficientare la spesa pubblica”. Vittorio Grilli tira un sospiro di sollievo. Salvo imprevisti, può godersi qualche giorno di vacanza con la famiglia. Prima di partire, il ministro dell’Economia mi riceve nel suo ufficio di Via XX Settembre, e mi illustra il piano del governo di qui alla primavera del 2013. Gli chiedo subito se l’ultimo allarme
della Bce sull’Italia non ci deve preoccupare.
“L’allarme della Bce – risponde – io l’ho letto in modo diverso: il Bollettino conferma che esiste un malfunzionamento dei mercati e che questo rende difficoltoso il rifinanziamento dei debiti sovrani, ma poi aggiunge che questo malfunzionamento può determinare enormi problemi anche alle imprese. Io condivido questa analisi. Proprio per questo occorre accelerare gli interventi di riequilibrio annunciati dalla stessa Bce”. Il ministro conferma che “per ora l’Italia non ha bisogno di aiuti”, annuncia che “appena sarà possibile ridurremo la pressione fiscale su famiglie e imprese” e chiude alla patrimoniale sollecitata da Bersani: “La patrimoniale – spiega – non appartiene al mio vocabolario. Il governo, con l’Imu e i bolli sulle rendite finanziarie,
ha già fatto passi importanti per riequilibrare il prelievo, spostandolo dal reddito allo stock della ricchezza. Toccherà ai prossimi governi decidere se fare passi ulteriori”.
Ministro Grilli, in questo momento tutti si chiedono se l’Europa supererà questa crisi, e se la moneta unica reggerà l’urto dei mercati. Lei come la vede?
“Capisco la preoccupazione. Ma sono sicuro che l’Europa uscirà da questa crisi. L’Europa è l’area più ricca dal punto di vista economico e più avanzata dal punto di vista storico e culturale, eppure in questo momento viene vista come una delle aree più problematiche del mondo. È una contraddizione logica, che ci da la misura di quanto il mondo sia cambiato. L’Occidente non si può più permettere il lusso di imporre, con i suoi modi e con i suoi tempi, lo sviluppo del pianeta. Una volta gli investitori avevano una scelta limitata: allocavano le risorse in un sistema omogeneo di regole e di valori, rappresentato dalle democrazie occidentali. Oggi la competizione avviene non più solo tra prodotti e servizi, ma tra Sistemi-Paese. E l’Europa, adesso, deve competere con altri popoli e con altri modelli di civiltà”.
L’impressione è proprio questa: che l’Europa non ce la faccia a competere.
“In realtà l’Europa è come un granchio: continua a crescere, ma in modo non lineare, ma a stadi, a balzi. Deve cambiare il suo esoscheletro, per adeguarsi. Questo è un processo faticoso, e come per i granchi la muta è un periodo di grande vulnerabilità. Per questo il cambiamento deve avvenire in fretta, e i tempi li dettano i mercati”.
Appunto: i mercati impongono la loro dittatura ai popoli. Non è così?
“Non la metterei su questo piano. I mercati non vanno demonizzati. Un’economia moderna non può farne a meno: è una questione di convenienza reciproca. I mercati non sono un nemico, ma uno strumento che consente agli Stati e ai privati di finanziarsi. Naturalmente i mercati scelgono le soluzioni a loro più convenienti, e gli Stati devono adattarsi per essere più competitivi e più attraenti. Questo processo di adattamento è più lungo e difficile in Europa, proprio perché esiste una casa comune, l’euro, che impone a tutti i Paesi di cambiare assieme. Ma io non ho dubbi: il processo è irreversibile. L’euro è una grande conquista, economica e di civiltà. E dall’euro non si tornerà indietro “.
Non trova che nella difesa dell’euro i governi siano troppo esitanti, a partire dalla Germania, e la Bce non abbia fatto quanto doveva e poteva, una settimana fa?
“No, io ritengo invece che il Consiglio d’Europa del 28-29 giugno e il successivo Consiglio direttivo della Bce abbiano dato risposte molto positive ai mercati, delineando una road map chiara sulla tenuta dell’euro. Il processo di comprensione e di metabolizzazione di quelle decisioni richiede tempo, ma le scelte annunciate da Draghi sono state molto positive. Come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia Visco, la Bce ha fissato alcuni capisaldi importantissimi. Il primo è che, se c’è un rischio percepito di break-up della moneta unica, questo è ingiustificato e ingiustificabile. Il secondo è che, la grande volatilità e differenze tra tassi di interesse nell’area dell’euro rende la corretta trasmissione delle politiche monetarie difficile se non impossibile. E ciò non è accettabile da parte della Bce che quindi, se intervenisse sui mercati del debito sovrano per stabilizzarli si muoverebbe perfettamente all’interno del proprio mandato”.
È un fatto che i nostri spread restano inchiodati sopra quota 450. Lei è sicuro che non ci sia un caso Italia?
“Gli spread italiani riflettono una doppia componente: una esterna (la sfiducia sull’euro, in questo momento preponderante) e una interna (il giudizio sulla nostra capacità di risanare e di competere, in questo momento secondaria). Io non credo che esista un “caso Italia”. E comunque, se esiste, negli ultimi mesi si è sicuramente ridimensionato grazie all’azione di questo governo”.
Quindi ha ragione Monti, a ricordare che con il governo Berlusconi oggi lo spread sarebbe a quota 1.200 punti?
“Il presidente del Consiglio ha spiegato il suo pensiero. Tutti siamo consapevoli che l’Italia da dicembre in poi doveva compiere scelte drastiche in tempi molto ristretti. Le ha fatte, grazie all’intervento tempestivo del governo e al senso di responsabilità del Parlamento. Mi pare che non ci sia altro da aggiungere, se non sperare che questo senso di responsabilità non venga mai meno”.
Il governo continua a ripetere che l’Italia non ha bisogno dell’aiuto del Fondo salva-spread. Lei lo conferma?
“Lo confermo. Riteniamo che la strumentazione messa ora in campo dalla Bce, quando sarà operativa, possa allentare sostanzialmente le tensioni sui differenziali”.
Ma fino a quando possiamo reggere, senza chiedere questo “bailout”, come invece sta per fare la Spagna?
“Non voglio fare paragoni con altri Paesi, ma oggi l’Italia è tra i Paesi più virtuosi del mondo e sicuramente d’Europa. Dunque, non ci serve alcun aiuto per ripianare il deficit: abbiamo un surplus primario rilevante, l’anno prossimo avremo il pareggio di bilancio in termini strutturali. L’unica cosa che ci serve è un po’ di tranquillità da parte dei mercati, che continuino ad avere fiducia e mantengano i propri investimenti nel nostro Paese. In altre parole, ci servono condizioni di mercato normalizzate che consentano un ordinato “roll-over” dei titoli in scadenza del nostro debito pubblico, e questo è tutto”.
Ministro, si parla da giorni delle famose “condizionalità” alle quali potremmo essere assoggettati, per accedere agli aiuti del Fondo salva-spread. Dovremo accettare ulteriori limiti alla sovranità?
“Il mio parere è fondato sulle decisioni del Consiglio d’Europa del 28-29 giugno e della Bce: in quelle sedi si è convenuto che, oltre agli innegabili progressi compiuti dai Paesi virtuosi, servissero anche misure di stabilizzazione dei rendimenti dei titoli di stato. Il “Memorandum of understanding” indicato dalla Bce serve esattamente a questo: per attivare queste misure di stabilizzazione, i Paesi ribadiscono gli impegni già presi, certificando la volontà di proseguire sul cammino delle riforme concordate secondo gli accordi già presi , e cioè quelli derivanti dal Semestre Europeo, dal Patto di Stabilità e di crescita, dal Fiscal Compact. Ebbene, noi riteniamo che il quadro sia questo, e non sia cambiato. Quindi non ci sono “condizionalità” aggiuntive, ma semmai solo conferme, attraverso un “atto unico”, di tutto ciò che è già stato definito in precedenza”.
Lei parla di Italia come il Paese più virtuoso d’Europa, e di pareggio di bilancio nel 2013. Ma con questi dati disastrosi sul Pil è sicuro che non salti tutto per aria?
“Senta, il nostro impegno è chiarissimo: bilancio in pareggio strutturale, cioè corretto per il ciclo. Siamo ben consapevoli che l’economia mondiale sta rallentando, e che in presenza di un ciclo molto pesante noi stiamo portando avanti un risanamento strutturale profondo. Del resto il nostro debito pubblico negli ultimi anni è ricresciuto sino a circa il 123% del Pil non tanto perché sia aumentato il deficit, ma proprio perché è diminuito il Prodotto Interno Lordo. Quindi sappiamo che ci sarà un peggioramento del deficit nominale. Tuttavia la nostra bussola resta il deficit strutturale, e su quello abbiamo e continueremo ad avere le carte perfettamente in regola”.
Ma lei se la sente di escludere al 100 per cento una nuova manovra in autunno?
“Assolutamente sì. Sarebbe un errore: se varassimo una manovra per ridurre ulteriormente il deficit nominale, non faremmo altro che deprimere ulteriormente un’economia già in recessione”.
Il macigno del debito pubblico resta insostenibile. Non crede che il suo piano di riduzione di 1 punto percentuale all’anno, con la dismissione e la valorizzazione del patrimonio immobiliare, sia troppo timido? E come valuta le proposte più drastiche in circolazione, da quella di Monorchio a quella di Amato?
“Io ho tracciato un percorso di rientro dell’1% del Pil all’anno, che ritengo realistico e percorribile, che ruota intorno a un programma pluriennale di dismissioni pubbliche, soprattutto sul fronte immobiliare. Questo 1% si andrebbe a sommare alla riduzione del debito derivante dal raggiungimento del bilancio in pareggio. Con ipotesi molto prudenti sulla crescita futura del nostro Paese, questa riduzione sarebbe di circa il 3%, per un totale quindi di riduzione annuale del 4%. Superata questa fase recessiva, in cinque anni questo consentirebbe una riduzione del rapporto del debito pubblico sul Pil di 20 punti percentuali. Mi sembra un risultato ragguardevole, che sottolinea l’importanza di agire contemporaneamente e rigorosamente sia sul deficit che sulle dismissioni. Detto questo, non lasciamo proprio nulla di intentato. Stiamo studiando tutte le proposte in campo e ci stiamo confrontando in maniera costruttiva con tutti coloro che ci hanno criticato per la nostra eccessiva prudenza sollecitandoci a fare di più. Questo ci stimola senz’altro ad essere più ambiziosi, anche se l’ambizione deve sempre fare i conti con la realtà. Se è possibile fare di più lo faremo”.
A parte il patrimonio immobiliare, non è il caso di tirar fuori qualcosa anche da Snam Rete Gas, da Terna, da Fintecna?
“Queste aziende sono già dentro la Cassa Depositi e Prestiti, e a mio parere è bene che ci restino, perché vogliamo costruire un polo delle Grandi Reti, monopoli naturali essenziali per lo sviluppo del paese, che in quanto tali devono restare “terze” rispetto agli operatori privati di servizi. Ritengo che questo schema sia valido, proprio nell’ottica del Sistema-Paese”.
Almeno potreste cedere quote di Eni, Enel e Finmeccanica…
“Io ritengo un bene che anche in queste grandi aziende convivano una componente pubblica e una privata. Questo le rende più solide. In questo momento di grandi distorsioni nei mercati finanziari, di valori azionari cosi bassi scendere sotto il 30% come partecipazione nel capitale da parte dello Stato è anche pericoloso. Sarò un po’ dirigista, ma alla difesa dell’italianità in certi settori strategici, io ci credo ancora “.
La pressione fiscale resta a livelli record. Crede ancora di poter scongiurare l’aumento dell’Iva nel 2013?
“Il nostro impegno in realtà è più ambizioso: noi vogliamo eliminare l’aumento dell’Iva in modo permanente, e contiamo di farcela. È vero, la pressione fiscale è troppo alta, e va ridotta. Com’è noto, gli strumenti sono due: aumentare la base imponibile attaccando le aree di evasione, ridurre in modo strutturale la spesa pubblica. Su entrambi i fronti siamo determinati, e l’abbiamo dimostrato”.
Non sarebbe ora di ridurre le tasse su famiglie e imprese, proprio usando i proventi del recupero di evasione fiscale?
“La riduzione del carico fiscale è una nostra priorità. Per ora ci siamo concentrati sull’evitare l’aumento dell’Iva. Non vogliamo illudere nessuno con promesse sulla tempistica che ora non siamo in grado di fare, ma appena si creerà uno spazio ridurremo anche le altre imposte “.
Il governatore Visco dice che la congiuntura sta peggiorando, i dati sul Pil dell’ultimo trimestre sono disastrosi. Non crede che i decreti sullo sviluppo siano un flop?
“Non sono d’accordo con lei. Sulla crescita abbiamo fatto molto. Qui c’è un equivoco, perché molti commentatori parlano di crescita e la confondono con la congiuntura. Crescita vuol dire lavorare sul Pil potenziale, vuol dire intervenire sui meccanismi che lo bloccano o lo rallentano. E noi su questi meccanismi siamo intervenuti eccome. Ma sono processi lenti, che producono risultati nel medio periodo. L’inversione del Pil potenziale si vede in uno o due anni, non in uno o due mesi”.
Il decreto sulla spending review è legge, ma anche su quel fronte non siete stati un po’ troppo timidi? Che altri passi farete, di qui all’autunno?
“Vede, la spending review, per definizione, è un processo permanente, e non si esaurisce con interventi una tantum. Certo che, dall’autunno, faremo altri passi, il nostro commissario straordinario Bondi è al lavoro per questo. Ma anche qui bisogna chiarire alcuni punti. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica ognuno pensa a qualcosa di remoto, e invece la spesa pubblica riguarda la nostra quotidianità. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica ognuno pensa agli sprechi, senza considerare che dall’altra parte dello “spreco” c’è sempre qualcun altro che quel taglio non lo vuole. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica ognuno pensa ai risparmi da fare nei ministeri, immaginando che quello sia il vero problema”.
E invece non è così?
“No, non è così. La montagna della spesa pubblica va aggredita nel suo complesso. Occorre un ridisegno complessivo della Pubblica Amministrazione, un apparato in cui lavorano 3 milioni e 300 mila persone, di cui solo 170 mila sono dipendenti dei ministeri, cioè circa il 5% del totale. Non possiamo illuderci che intervenendo su questa esigua minoranza abbiamo risolto tutto. La crescita della spesa pubblica nominale ha rallentato in questi ultimi anni. Il guaio è che il Pil si è contratto, e quindi oggi un volume di spesa uguale a quello di quattro anni fa non è più sostenibile. Dobbiamo ridurre i costi a parità di prestazioni, e per farlo non possiamo essere né solo selettivi, né solo lineari. La gestione “politica” della spesa pubblica, per decenni, ha fatto sì che lo Stato invadesse interi settori dell’economia. Dobbiamo invertire la tendenza. E nel decreto della spending review abbiamo cominciato a farlo, riducendo il perimetro e il costo delle società pubbliche e delle società “in house”, che in prospettiva devono scomparire del tutto, perché hanno impedito al settore dei servizi di svilupparsi in modo efficiente, riducendo lo spazio dei privati e quindi limitando la concorrenza”.
Ma il primo decreto sulle liberalizzazioni è stato deludente. L’impressione è che abbiate ceduto alle lobby.
“Guardi, come la spending review, anche le liberalizzazioni sono un processo permanente e continuo. Noi abbiamo fatto un passo importante, ce ne saranno altri, e nessuno di questi sarà conclusivo. Dobbiamo rimuovere le rendite di posizione e le barriere corporative, pubbliche e private. Le lobby si muovono, e anche questo, piaccia o no, fa parte delle regole di una democrazia complessa. Ma deve essere chiaro a tutti che il processo delle liberalizzazioni non si ferma, perché è ineludibile”.
Monti ha definito più volte la concertazione con le parti sociali come uno strumento non più ripetibile, per uscire dalla crisi italiana. Condivide questa tesi?
“Il presidente del Consiglio è stato chiarissimo. Nelle democrazie moderne, per chi governa, è indispensabile la certezza di aver ascoltato tutti. I modelli di “ascolto” cambiano da Paese a Paese: in alcuni Paesi ci sono partiti forti, in altri ci sono corpi intermedi ancora più forti, in altri ancora ci sono gli uni e gli altri. Noi apparteniamo a quest’ultimo modello. Io penso che il momento del confronto sulle soluzioni sia fondamentale. Dopodiché servono decisioni che riflettano l’interesse generale, e non quello di una parte. E il “luogo” deputato alle decisioni, per me, è racchiuso nel circuito governo-Parlamento”.
Confindustria e sindacati, per ragioni diverse, non amano questo governo tecnico. Perché, secondo lei?
“Io vedo una costante, che mi preoccupa. A parole, tutti dicono di esser consapevoli della gravità della crisi. Ma nei fatti, ognuno pensa che ad accelerare i cambiamenti che la crisi impone debbano essere gli altri. Questo ragionamento non funziona più. Sono logiche da economia chiusa. Il tempo delle scorciatoie, della scala mobile e delle svalutazioni competitive, è finito per sempre. Quando avanzi una richiesta, ormai, hai il dovere di chiederti come impatta sulla competitività complessiva del Paese. Questo salto culturale noi non lo abbiamo ancora completamente compiuto. A volte pensiamo di poter giocare ancora una partita tutta domestica, invece la partita è globale. Dobbiamo rimetterci tutti in gioco. Serve davvero un nuovo Patto Sociale, che non significa rinuncia all’esercizio della nostra sovranità nazionale. Il modello è il federalismo dell’Europa dei popoli. Nessuno può più credere di poter prendere decisioni ignorando di fatto il contesto internazionale”.
Lo scenario delle elezioni anticipate non e ancora svanito. Secondo lei sarebbero un danno, dal punto di vista dell’economia?
“Senta, in tutto il mondo le democrazie votano. Non sta a me dire quale sia il momento giusto. La mia visuale è più ristretta: lavoro a testa bassa per mettere in sicurezza i conti dell’Italia. E lo farò finché questo governo sarà in vita”.
(14 agosto 2012) – repubblica