Tagliare la spesa dei ministeri del 3%. È l’obiettivo annunciato qualche giorno fa dal presidente del Consiglio per dar corpo ai 20 miliardi di euro di taglio della spesa pubblica promessi sempre da Matteo Renzi per il 2015. Oggi dovrebbero cominciare a Palazzo Chigi gli incontri tra lo stesso premier e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con i singoli ministri.
Renzi infatti ha detto di non voler imporre i tagli ai componenti la squadra di governo, ma di volerli coinvolgere nella scelta delle voci di spesa da ridurre. Fermo restando però il target di una diminuzione delle uscite del 3%.
Se questo taglio si applicasse a tutta la spesa pubblica (centrale e locale), a conti fatti, escludendo le spese per investimenti, quelle per il personale e quelle per prestazioni sociali (pensioni, assistenza, sanità, ammortizzatori sociali), si potrebbero realizzare al massimo 6 miliardi di euro. Dal totale di 806 miliardi di euro di spesa pubblica prevista per il 2014 dal Def (Documento di economia e finanza) bisogna infatti sottrarre circa 84 miliardi per gli oneri sul debito pubblico, 164 miliardi per gli stipendi dei dipendenti pubblici, 320 miliardi per le prestazioni sociali e 50 miliardi di spese in conto capitale, cioè in investimenti. Tutte voci che non può o non vuole tagliare. Restano appunto circa 190 miliardi. Il 3% fa 5,7 miliardi.
Considerando la sola spesa delle «amministrazioni centrali», alle quali i ministeri appartengono, si parte da 353 miliardi al netto degli oneri sul debito pubblico e delle spese in conto capitale. Tolta la spesa per il personale (94 miliardi), restano 259 miliardi. Un taglio del 3% farebbe risparmiare circa 7 miliardi e mezzo. Sulla carta, quindi, un terzo dei 20 miliardi di tagli complessivi della spesa pubblica chiesti da Renzi potrebbero arrivare dai ministeri. Ma i precedenti hanno dimostrato quanto l’operazione sia difficile. È dal 2011 che si cerca di ridurre la spesa ministeriale, possibilmente con tagli non lineari, ma selettivi, che colpiscano cioè gli sprechi anziché tutte le voci allo stesso modo. Fu l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, con tre successivi provvedimenti a fissare gli obiettivi (10,7 miliardi nel 2012, 5 miliardi nel 2013 e 5 nel 2014, ai quali si aggiunsero altri 1,8 miliardi per il 2013 e 1,6 miliardi per i due anni successivi). I singoli ministeri avrebbero dovuto scegliere quali voci tagliare. Se non lo avessero fatto, sarebbe scattata la clausola di salvaguardia dei tagli lineari. Bene, la Ragioneria generale dello Stato, nel «Bilancio in breve» del 2013 spiega che le proposte di tagli selettivi avanzate dai ministeri coprirono all’incirca la metà della riduzione della spesa prevista, insistendo in particolare sul taglio delle spese per il personale, in particolare indennità varie, vestiario, mense, equipaggiamenti, e sugli investimenti per i trasporti urbani ed extraurbani. Insomma non proprio tagli virtuosi.
Anche la legge di Stabilità 2014 e il successivo decreto legge 4 dello scorso gennaio (governo Letta) prevedono un pacchetto di misure (accorpamento strutture, tagli su beni e servizi e sulle locazioni) per assicurare una riduzione complessiva della spesa di 500 milioni nel 2014, 4,4 miliardi nel 2015, 8,9 nel 2016 e 11,9 a decorrere dal 2017. Di questi risparmi fanno però parte 3 miliardi nel 2015, 7 nel 2016 e 10 dal 2017 da realizzare attraverso il taglio delle agevolazioni e detrazioni fiscali se, entro il pri mo gennaio 2015, non saranno approvati provvedimenti tali da assicurare tagli di spesa equivalenti. In attesa di tali provvedimenti sono intanto disposte riduzioni delle spese dei ministeri di un miliardo nel 2015 e 1,2 miliardi dal 2016. Che però ancora non sono stati individuate.
Enrico Marro – Corriere della Sera – 8 settembre 2014