Chi, ormai sepolto nei sonni inquieti della calura urbana, non sogna di risvegliarsi dietro persiane socchiuse, all’amichevole belato di pecore che passeggiano sul prato verdeggiante? Certamente non chi deve convivere con un gregge nelle vicinanze, che con i campanacci a martello assicura la sua presenza arcadica giorno e notte. Al punto da ottenere che i bucolici quadrupedi vengano confinati in recinti ad almeno 100 metri dalla sua abitazione, ma senza vedersi riconoscere un risarcimento per il disturbo.
La Cassazione (sentenza 17013/2015, depositata ieri) ha così confermato una sentenza del Tribunale di Arezzo, che obbligava i pastori a contenere le esuberanze fonetiche dei loro animali all’interno di un recinto a una certa distanza dalla casa di chi aveva fatto loro causa, ma non a risarcire 10mila euro per il «danno esistenziale».
Per la Cassazione, infatti, il nodo non è tanto sul tipo di suono emesso, giacché il belato, universalmente considerato evocativo di una pace che, addirittura, serve a conciliare il sonno, favorito proprio dall’inesauribile conta dei lanosi quadrupedi. Piuttosto, i giudici precisano che in questo come in altri tipi di disturbo, derivanti o meno da «immissioni» di rumori, occorre che si verifichi un nesso diretto tra evento e danno: «il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando oltre la suddetta soglia di tollerabilità, ne rende significativamente apprezzabile la portata». Prova che, appunto, non era stata prodotta dai ricorrenti.
Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore – 21 agosto 2015