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Il 69% del cibo passa almeno una frontiera. Slow food: proteggere la diversità delle colture e riscoprire i consumi locali equivale a salvaguardare un patrimonio inestimabile

Gaetano Pascale. Forse non ci facciamo caso, ma le specialità «esotiche» si trovano anche nell’orto di casa. Ce lo ricorda uno studio appena realizzato da un team di ricercatori dell’International Center for Tropical Agriculture (Ciat), dove per la prima volta si quantifica l’apporto dei vegetali non autoctoni nelle economie agricole e nella dieta di 177 Paesi diversi. Gli scienziati hanno suddiviso le coltivazioni in 23 regioni geografiche primarie, scoprendo che a livello mondiale ben il 69,3% delle colture alimentari ha origini non autoctone.

Il ricorso alle specie importate si fa tanto maggiore quanto più una regione è isolata, com’è il caso dell’Australia o del Madagascar, mentre diminuisce laddove il sistema alimentare è dominato da poche produzioni locali, ad esempio il riso in Paesi come la Cambogia e il Bangladesh. Anche nelle aree più chiuse , comunque, almeno un quinto della dieta dipende da piante non indigene. Questa globalizzazione del gusto esiste da sempre, ma è cresciuta a grandi ritmi negli ultimi cinquant’anni. Esiste un divario crescente fra produzione agricola e consumi: molte materie prime vengono spedite da un punto all’altro del pianeta senza una logica. Succede perché la grande industria impone lo stesso stile alimentare. Bisogna proteggere la diversità delle colture: riscoprire i consumi locali equivale a salvaguardare un patrimonio inestimabile.

La Stampa – 19 giugno 2016

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