Sono 27 giorni per le impiegate e 22 giorni per le top manager. E ancora, 18 giorni per le operaie e 13 per i quadri. È il periodo che le lavoratrici regalano alle aziende ogni anno. Un problema in Italia come negli altri paesi europei. E sempre più governi varano leggi sulla parità retributiva
Cristiana Salvagni. Oltre un mese di lavoro gratis ogni anno. È il periodo che ogni impiegata italiana regala alla propria azienda perché, a parità di ruolo e mansioni, riceve una retribuzione più bassa del collega che siede alla scrivania accanto. Questo divario di 27 giorni lavorativi si chiama in gergo “Gender pay gap” e riguarda un po’ tutte le categorie professionali: scende a 22 giorni per le dirigenti, a poco più di 18 giorni per le operaie, a 13 per i quadri.
In soldoni significa uno stipendio più magro, a volte molto più magro: di novemila euro l’anno per le manager, di tremila abbondanti per le impiegate e di quasi duemila per le operaie. Per una disparità di genere, secondo i dati dell’osservatorio JobPricing, del 6,7 per cento. Contro, per dire, il 16 per cento della Svezia, il 19 della Gran Bretagna e oltre il 22 della Germania.
Ma anche se siamo ben lontani dai 57 giorni di salario zero che toccano alle top manager britanniche o ai 59 che secondo i calcoli della Commissione europea ogni lavoratrice dell’Ue dovrebbe lavorare per avere la stessa paga degli uomini, in realtà c’è poco da esultare. Il gap è ristretto perché siamo uno dei paesi in Europa con l’occupazione femminile più bassa. Ma soprattutto perché nel nostro Paese incide molto l’effetto livella esercitato dal settore pubblico, dove le differenze sono minime, mentre nel privato lo scarto è in linea con quello Ue, cioè al 17 per cento.
«Negli ultimi anni il divario si è un po’ assottigliato ma il problema c’è e resta ingombrante, legato a una questione di mentalità, di cultura», spiega Marisa Montegiove, responsabile del gruppo Donne Manager della federazione delle associazioni dei dirigenti Manager Italia. «Le aziende cioè danno per scontato che a una donna debbano dare di meno: anche a parità di ruolo o di responsabilità decidono che la donna si accontenta, che non c’è bisogno di offrire di più. In questo senso c’è molto da fare e non solo in Italia, anche in quei paesi che di solito riteniamo virtuosi ». Come la Svezia appunto, con il 16 per cento di gap negli stipendi di uomini e donne, o la Danimarca con il 15 per cento o ancora la Finlandia con un largo 19 per cento. «La questione scandinava è stata uno shock anche per noi addetti ai lavori», continua Montegiove. «Se addirittura i Paesi del Nord hanno denunciato una regressione, cioè che il gap sta tornando a crescere come in passato, vuol dire che bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare. In Italia una bella scossa l’ha data la legge sulle quote rosa, ma il nostro basso divario nelle retribuzioni non può farci mettere l’anima in pace perché in realtà è dovuto al fatto che le donne ai vertici sono ancora troppo poche ». Che fare allora? Per sensibilizzare l’opinione pubblica alla questione nel 2011 la Commissione europea ha lanciato la giornata per la parità retributiva, caduta nelle ultime edizioni il 28 febbraio: cioè il 59esimo giorno dell’anno, esattamente il tempo che una donna dovrebbe lavorare in più per guadagnare quanto un uomo. Il Parlamento del Belgio, dove il gap è del 10 per cento, ha invece varato tre anni fa una legge che obbliga le imprese a condurre analisi comparative dei salari. Mentre il governo francese, con uno scarto del 15 per cento, ha rafforzato le sanzioni per le aziende che non rispettano gli obblighi sulla parità. O ancora l’Austria, uno dei Paesi con il divario più alto, oltre il 23 per cento, ha obbligato per legge le imprese a presentare relazioni sulla parità retributiva.
Più che le politiche, e le buone intenzioni, contano i fatti. «Donne e aziende devono cambiare rotta», ribadisce Montegiove. «Negli anni prima della crisi si era sviluppata una tendenza a valorizzare le capacità femminili, le donne stavano alzando la testa, chiedendo promozioni e aumenti. Ma poi il crac finanziario ci ha fatto tirare i remi in barca per salvaguardare il posto di lavoro. Inoltre bisogna capire che i figli non possono essere un punto di demerito. Anche perché l’esigenza di conciliare vita e lavoro sta diventando sempre di più una necessità anche maschile».
Repubblica – 26 agosto 2015