«Cosa ci fa ancora Giancarlo Galan alla presidenza della commissione Cultura della Camera?». Se lo chiede Gian Antonio Stella nell’ultimo numero di Sette in edicola e al giornalista del Corriere , che la chiama in causa come esecutrice di «una tesi burocraticamente ineccepibile», ha replicato ieri con una lettera al quotidiano la presidente della Camera Laura Boldrini.
Spiegando che certo, «sarebbe opportuno che Galan desse le dimissioni», ma «purtroppo» non è possibile imporgliele in alcun modo perché «nel nostro ordinamento non sono ammissibili strumenti volti a revocare il presidente di un organo parlamentare». Che poi è quel che Boldrini ha già detto ai deputati del Movimento 5 stelle, che dall’inizio di giugno stanno chiedendo con insistenza che questo levi le tende dalla commissione prima e da Montecitorio poi. Boldrini, nel concludere la sua lettera, sembra quasi appellarsi alla coscienza dell’ex presidente del Veneto: «Le norme appena annunciate dal governo (quelle in materia di corruzione, ndr .) sono certo utili, ma la politica non sta solo nella produzione di nuove leggi. Sta anche nei nostri comportamenti, che nessun codice può disciplinare fino ai minimi dettagli. Il principio per cui il presidente della Camera e i presidenti di commissione non possono essere dimissionati ha lo scopo di tutelarne il ruolo di garanzia non certo quello di fare da scudo contro la magistratura. Serve una norma che lo espliciti? In realtà dovrebbe bastare l’art. 54 della Costituzione, chiarissimo: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”».
L’argomento risulterà convincente a Villa Rodella? Sembra proprio di no. All’origine dell’ostinazione di Galan a non schiodarsi da dove sta, infatti, non vi è né una questione di «ruolo», visto che la commissione continua serenamente a lavorare senza di lui, retta dai due vice, nella più totale indifferenza dei componenti, né una questione di soldi, giacché Galan non riceve più da tempo l’indennità suppletiva di circa 1.300 euro stabilita per legge per i presidenti di commissione. Si tratta semplicemente di un puntiglio, l’esibizione muscolare del celeberrimo «orgoglio galaniano». Perché mai dovrebbe fare alla Camera «la cortesia istituzionale» di dimettersi, si chiede, se la Camera gli ha appioppato lo schiaffo dell’autorizzazione a procedere senza neppure degnare la sua difesa appassionata di un briciolo di attenzione? Perché lui dovrebbe cedere alle pressioni di chi ha permesso che gli venissero messe le manette ai polsi? Si dimetterà se e quando la legge glielo imporrà, come spiega il suo avvocato, Antonio Franchini: «Sono previste delle procedure di decadenza, certo, ma ne riparleremo quando la sentenza sarà passata in giudicato». E cioè dopo il ricorso fatto in Cassazione, tra un anno o giù di lì. Fino ad allora Galan resterà anche deputato, con relativo stipendio. Gliel’hanno sbloccato da un paio di settimane, non andando a Roma e non votando si tratta di quello «base»: 5 mila euro al mese.
Ma.Bo. – 14 dicembre 2014