Carlo Petrini. Bisognerebbe aspettare un po’, prima di dire cosa Expo ci ha portato e cosa invece ci ha solo promesso. Ma la cronaca, e i commenti che l’accompagnano, non consentono attese, quindi proviamo a narrare cosa è stato e cosa sarà questo evento straordinario.
Come è successo a Torino con le Olimpiadi invernali del 2006, così ci sarà una Milano prima dell’Expo e una Milano del dopo Expo. Quel che un’intera collettività vive, cambia, nel bene e nel male, le menti e le memorie, e ovviamente (forse prima) anche gli spazi fisici in cui quella comunità si muove e si identifica.
Ma la straordinarietà di Expo 2015 riguarda anche il suo stesso essere un’Expo. Le esposizioni universali sono vetrine, autopromozioni, autonarrazioni. Si sceglie un tema e su quel tema si dice al mondo quanto si è avanti, moderni, sviluppati.
Questa edizione però ha avuto l’ardire di scegliere come tema il cibo, e il cibo sovverte le categorie del mercato, del business, della modernità. Il cibo è argomento complesso, che continuamente sguscia via dalle gabbie in cui lo si vorrebbe intrappolare come merce; diventa ambiente, salute pubblica, paesaggio, giustizia, cultura, spiritualità, diritti. Si oppone all’essere considerato mero argomento di autopromozione e diventa didattica, educazione, sensibilizzazione delle coscienze.
Cosa dovrebbe dire un paese moderno per dimostrare di essere all’avanguardia sul tema cibo? Dovrebbe parlare di tonnellaggi, esportazioni, percentuali di pil, brevetti e, se il cibo fosse solo merce, basterebbe. Ma il cibo è cibo. Sicché un paese all’avanguardia dovrebbe sfoggiare una popolazione senza diabete, senza affamati, senza obesi. Dovrebbe narrare un sistema produttivo senza sprechi, un suolo fertile, acque pulite, mari pescosi. Quali e quanti, tra i paesi dell’Expo, possono farlo?
Inoltre il cibo non è “un settore”. Se a una normale esposizione universale con un tema dato ci vanno tutte le persone, a vario titolo interessate a quel tema, ad un’esposizione sul cibo ci andranno, potenzialmente, tutti. Per questo l’Expo milanese non poteva non diventare un fenomeno di massa, con qualche comprensibile sconfinamento nella fiera di paese.
Tuttavia il titolo stabiliva, sia pure all’interno di un ambito tanto vasto, confini sufficientemente flessibili da consentire l’ingresso di molte argomentazioni. “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” era un indirizzo, invitava a un ragionamento sulla sostenibilità: nutriremo il pianeta (tutto il pianeta, tutti i viventi) solo se sapremo farlo creando nel contempo energie per la vita. Cioè non continuando a saccheggiare l’energia del pianeta per nutrire solo una parte di esso (gli umani, e nemmeno tutti).
Era una flebile colonna sonora, quello slogan, occorreva concentrarsi un po’ per non perderla nel frastuono generale, ma se ci si riusciva allora la visita ad Expo si costruiva intorno a un senso: dal Padiglione Zero a quello di Slow Food, passando per l’area Italiana, Svizzera, del Vaticano, del principato di Monaco, dell’Angola, dell’Austria, del Brasile, di Cascina Triulza e di altri, il discorso si faceva politico, didattico, riflessivo. Un po’ tradiva lo spirito originario delle esposizioni universali, per diventare esperienza formativa.
Se invece ci si affidava al caso, o ad una lettura un po’ superficiale dell’evento, si potevano ricevere informazioni certamente parziali e spesso contraddittorie, oppure vivere l’Expo del cibo senza distinguerla da una edizione del Bit…
Sei mesi comunque intensi, anche fuori da Expo, sei mesi di incontri, attività e riflessioni, progetti e pubblicazioni. Sei mesi in cui è uscita l’Enciclica Laudato Sì, che ha dato chiare visioni su quel che — anche nel mondo dell’agricoltura e del cibo — l’accoppiata egoista di cattiva economia e cattiva politica hanno prodotto.
Insomma, tra occasioni mancate e reinterpretazioni del mandato espositivo, siamo arrivati in fondo e possiamo comunque dire che tutti quanti abbiamo avuto almeno un’occasione, durante questi sei mesi e anche in quelli precedenti, per riflettere sul cibo che mangiamo, che produciamo, che vendiamo o che qualcuno non mangia, non produce e non sa come comprare. L’eredità formale è una Carta di Milano che avrebbe potuto e dovuto essere più solenne e concreta, e che invece si è purtroppo risolta in una enunciazione un po’ troppo lieve, quasi frettolosa, alla quale molta parte della società civile non si è sentita di aderire. L’eredità sostanziale è un passo avanti — piccolo ma imprescindibile, come tutti i passi di un percorso coerente — sulla strada della comune presa di coscienza su un tema che merita tutta la nostra attenzione e che certamente nei prossimi mesi e anni vedrà all’opera quanti si sono un po’ formati grazie a questa Expo milanese. Expo chiude, ma un’accresciuta consapevolezza e determinazione a conoscere e difendere il pianeta, quella domani inizia.
Repubblica – 30 ottobre 2015