Per la prima volta Renzi è costretto a cambiare verso. Non è la politica a metterlo in affanno, la sfida al suo «partito della nazione» viene dal «partito dello Stato», il potente mondo delle elite e della burocrazia a cui il premier ha dichiarato guerra, tranne dover riconoscere ieri che «per aver la meglio sarà necessario organizzarsi meglio». D’ora in adanti, niente più Consigli dei ministri convocati dalla sera alla mattina, ma il calendario delle riunioni stilato sino a fine luglio.
Non è più tempo che le segreterie dei ministri chiamino Palazzo Chigi per sapere a che ora si svolgerà l’indomani la riunione di governo, e sentirsi rispondere che «la notizia è ancora riservata». Non accadrà più — per esempio — che il titolare della Cultura debba inviare un sms al premier per giustificare la propria assenza: «Non sono stato avvisato e avevo già preso un impegno di lavoro», ha spiegato ieri Franceschini a Renzi. E soprattutto non è più tempo di provvedimenti «fuori sacco», ignoti fino all’ultimo nei loro contenuti alla gran parte dei rappresentanti dell’esecutivo: si torna ai vecchi preconsigli, necessari per armonizzare e affinare i testi. A volte per modernizzare il sistema serve affidarsi a riti che si ritenevano superati, e che invece si mostrano indispensabili.
Perché lo scontro con il «partito dello Stato» non avviene in campo aperto, è un conflitto invisibile ma ancor più insidioso: non si tratta di superare in voti Berlusconi o Grillo, si tratta di evitare i veti di quanti con un parere possono bloccare un decreto.
La guerra è in corso. Al premier che in pochi mesi aveva aperto vari fronti — dai prefetti ai magistrati, passando per gli stipendi dei boiardi — ha risposto ieri dalle colonne del Foglio il segretario generale del Consiglio di Stato: «Noi siamo lo Stato. E qualsiasi governante ha bisogno della burocrazia. Ci vuole sempre qualcuno che sappia fare le cose. O che sappia dire di no». Poco importa sapere se Renzi abbia accusato il colpo o capito la lezione, che poi è la stessa cosa. Di certo gli è chiaro che un «no» proveniente da Palazzo Spada incide oggi sull’azione di governo ben più di un «no» che arriva da palazzo Grazioli.
Ecco cosa ha indotto il premier a fare autocritica prima di apprestare le contromisure: «L’ultima nostra riunione non era stata preparata bene», ha spiegato ieri in Consiglio dei ministri. Troppi testi accorpati in un unico provvedimento: energia, agricoltura, ambiente e soprattutto quella riforma della Pubblica amministrazione che hanno determinato «un ingorgo» — così l’ha definito — le cui conseguenze sono evidenti: dopo una settimana il decreto è ancora fermo al Quirinale. Ma il punto non è, com’è stato spiegato a Renzi, che «la struttura fatica ad assorbire e smistare in poco tempo provvedimenti così complicati».
Il premier semmai è convinto che il sistema gli faccia resistenza, che lui sia costretto a conquistare terreno combattendo casa per casa: «E più c’è resistenza, più mi convinco della bontà della scelta e della necessità di andare avanti». Sì, ma così sarebbe uno stillicidio. Perciò bisogna «essere preparati» a questo tipo di conflitto, perché per cambiare le istituzioni è necessario «superare gli ostacoli» che quelle stesse istituzioni sono in grado di porre.
Finora tra l’idea della mediazione e il blitz, Renzi ha scelto sempre la seconda soluzione. Nei giorni in cui il governo era concentrato sul decreto per gli sgravi Irpef, avvertendo l’ostilità del ministero dell’Economia, il premier non esitò ad andare fino a via XX Settembre per affrontare a muso duro la struttura della Ragioneria Fu un evento clamoroso, per certi versi irripetibile. E più complicato infatti entrare senza bussare al Colle.
E siccome il rottamatore non vuole finire accerchiato, avvolto e infine rottamaio da quell’insieme di caste che addita come «mandarini», ha capito che deve cambiare strategia. A partire dalla preparazione e gestione degli atti di governo. n presidente del Consiglio è consapevole di dover affrontare la sfida più difficile. Ne ha fatto cenno anche durante una riunione del Pd, dove il vicesegretario Guerini —cresciuto e svezzato nel partito-Stato che era la Dc — ha dato una definizione dello scontro in atto: «Il sistema politico troverà prima o poi un suo equilibrio e si riorganizzerà, ma per il momento noi siamo chiamati ad affrontare un diverso tipo di bipolarismo. Da una parte c’è il polo del cambiamento, rappresentato dal governo, dall’altra un sistema che si riunisce e si stringe attorno al polo della conservazione. È questa oggi la dinamica più tesa».
Renzi, che con il suo «partito della nazione» non sembra conoscere ostacoli in politica, e si espande al centro come a sinistra, deve fare ora i conti con il temibile «partito dello Stato». Che non ha voti, ma sa come mettere veti.
Francesco Verderami – Il Corriere della Sera – 21 giugno 2014