Da oggi l’Europa dovrebbe cominciare quello che l’America ha finito ieri. Dopo molti anni di cammino parallelo, le politiche monetarie di Stati Uniti ed eurozona si dividono. È il «divorzio» delle banche centrali che genera ansia, coltiva i dubbi tra i finanzieri, gli imprenditori e i politici riuniti a Davos, per il World economic forum.
Uno stato d’animo che si traduce immediatamente in previsioni sui tassi di cambio e sulle reazioni dei mercati. Per poi passare alla domanda fondamentale: il «quantitative easing», l’acquisto di titoli pubblici per un valore di 600 miliardi di euro, riuscirà a rilanciare l’economia europea?
Il confronto con gli Usa è tanto inevitabile, quanto crudele. Il discorso di Obama chiude politicamente e psicologicamente l’epoca dell’emergenza. È tempo di pensare a come intervenire sulle diseguaglianze.
L’Unione europea, invece, finora ha fatto poco o nulla. Si comincia davvero solo ora, con la mossa di Mario Draghi: 50 miliardi di nuova liquidità al mese, almeno per un anno.
Praticamente si è parlato solo di questo nella giornata inaugurale di Davos. Ma in pochi escono allo scoperto, anche quando nel pomeriggio le agenzie rilanciano le indiscrezioni sul «quantitative easing».
L’ex ministro delle Finanze svedesi, Anders Borg, forse perché assiste fuori dalla mischia, racconta di aver colto «preoccupazione» e, appunto, «ansia». I tempi della finanza internazionale non sono certo quelli della politica, neanche quelli della politica monetaria. La Federal Reserve, la banca centrale americana, dichiara concluso il piano che ha immesso 4.500 miliardi di dollari in cinque anni nel sistema. La presidente Janet Yellen ha già annunciato che da qui a qualche mese alzerà il tasso di interesse, dal 2008 bloccati in una forbice tra lo 0 e lo 0,25%. La Bce e i leader europei naturalmente non potranno accompagnare il movimento al rialzo, perché ciò significherebbe drenare liquidità e quindi vanificare in parte lo sforzo, tanto sofferto, del «quantitative easing». Ecco il divorzio tra Fed e Bce. Nessuno, almeno a Davos, si spinge a prevedere quale potrebbe essere l’impatto sui cambi. E nessuno può indovinare quando i mercati finanziari procederanno a una correzione senza aspettare gli annunci ufficiali di Janet Yellen. Dollaro più forte significa materie prime più costose e aggravi maggiori per le aziende europee. Ed ecco «l’ansia» degli imprenditori. Sul breve periodo, spiega l’amministratore delegato di una banca straniera, le oscillazioni potrebbero essere anche forti. Nelle ultime settimane tutti gli investitori hanno venduto la moneta unica comprando dollari, scommettendo su un’operazione della Bce da 650-700 miliardi. Adesso banche e finanziarie decideranno se mantenere le posizioni oppure «ricoprirsi», riacquistando euro in grande quantità, con il rischio di destabilizzare i mercati. L’incertezza, l’instabilità sono le ultime cose di cui ha bisogno l’eurozona.
Ma non è solo un problema di cambi e di speculazione. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha sollevato un punto in modo chiaro. Gli Usa prima hanno rimesso a posto il sistema bancario e finanziario; solo dopo hanno liberato liquidità e sovvenzioni. Per Padoan la zona euro è in ritardo anche qui: la dorsale bancaria va riparata e riprogettata, perché è da qui che passano le risorse destinate ad aziende e famiglie.
L’analisi di Padoan porta la questione nel campo politico. Un conto è una manovra monetaria concepita da uno Stato federale come gli Usa. Un altro è immaginarla in un quadro istituzionale incompiuto come è la Ue. La differenza potrebbe farla la guida politica, la «leadership» rivendicata a Davos dal primo ministro Matteo Renzi. È così? Il World economic forum oggi aspetta la risposta dell’ospite più atteso, la cancelliera Angela Merkel.
Giuseppe Sarcina – Corriere della Sera – 22 gennaio 2015