La «pacificazione», quella proprio no. Il governo Letta ha approvato molti provvedimenti, dire che non ha fatto niente è sciatto e superficiale, in questi mesi lo spread è crollato, un segno più comincia timidamente a sostituire l’impressionate sequenza di zeri che ha mortificato l’economia italiana in questi anni.
Ma l’obiettivo della «pacificazione» tra due schieramenti messi insieme dall’emergenza e costretti a coabitare malgrado la loro alternatività, quest’obiettivo è stato clamorosamente mancato. E non è detto che il presidente del Consiglio che sta per uscire da Palazzo Chigi se ne rammarichi. Avevano detto che questo era il governo dell’inciucio con Berlusconi per salvarlo. Ma nel periodo di questo governo Berlusconi è decaduto da senatore e il centrodestra si è spaccato. Anche se gli incontentabili di sinistra non sembrano aver apprezzato.
La parola chiave di questi mesi è stata «Imu». La sua abolizione sulla prima casa era la condizione imprescindibile che il centrodestra berlusconiano aveva posto per fare il suo ingresso in un governo presieduto da un esponente del Pd. Enrico Letta pronunciò la formula magica nel suo discorso di insediamento alla Camera, «Imu», e il cenno di assenso di Renato Brunetta sancì la nascita del nuovo governo. Per poi trovare le risorse che potessero compensare il mancato introito dell’Imu, il governo con il suo ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha cercato ogni appiglio. Si è dato fondo alla fantasia nominalistica con sigle di nuove e suggestive formule di imposta sulla casa che non suonassero più «Imu». Si è dato fondo anche, e purtroppo, a rimedi molto tradizionali e per così dire non proprio la specialità che ti aspetteresti da un autorevole tecnico, tipo aumenti sul carburante e sulle sigarette che i più anziani ricordano nella loro infanzia trascorsa nella Prima Repubblica. L’altra parola-chiave di questo governo è stato «trovare». Come trovare la copertura per spendere 500 milioni, come trovare le risorse per diminuire di un’unghia il peso del cuneo fiscale? Piano piano. Lentamente. Senza strafare. Così lento che a tratti è sembrato immobile. E si sa che sulla percezione pubblica la politica moderna si gioca tutto.
Letta è partito con una squadra di governo che in molti, anche tra chi proprio non simpatizzava per le larghe intese, era sembrata più giovane, più dinamica, più sorprendente. Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin volti nuovi e affidabili, Cécile Kienge primo ministro di colore per affrontare il tema dell’immigrazione, giovani del Pd come Stefano Fassina e Andrea Orlando, l’esperienza di Anna Maria Cancellieri, Emma Bonino grande speranza per la sua lunga militanza nel campo dei diritti umani. E tanti altri: Massimo Bray non conosciutissimo ma competente alla Cultura, un tecnico di vaglia come Enrico Giovannini alle Politiche sociali e così via. Poi, certo, la lunga lista dei «casi» che singolarmente hanno indebolito l’immagine della compagine governativa. Il caso di Josefa Idem, dimissionaria per una storia di Imu non pagata (sempre l’Imu, il destino). Il caso di Angelino Alfano, con la brutta storia della bambina kazaka portata via con la madre mentre l’ambasciatore di quel Paese faceva il prepotente al Viminale. Il caso di Annamaria Cancellieri, una sciagurata telefonata di agosto letta come tentativo di pressione sulla vicenda Ligresti. Il caso De Girolamo, con telefonate pubblicate senza nessun rispetto della riservatezza diritto di ogni singolo cittadino, e che pure difficilmente non potevano non ingenerare un sentimento di sgomento per la brutale smania lottizzatrice sulla sanità campana di cui erano espressione, con le dimissioni finali. Ogni volta, la pazienza Zen del presidente Letta ha evitato strappi, traumi troppo dolorosi. Ogni caso doveva essere circoscritto come un caso. Ogni volta il governo si vedeva costretto a difendere un suo esponente grazie all’insostituibilità di una soluzione politica anomala, nata dal pasticcio delle elezioni per il nuovo presidente della Repubblica e ricucita con la rielezione al Quirinale di Giorgio Napolitano, il vero tutore dell’esecutivo Letta.
Il premier ha potuto sfoggiare nei suoi viaggi internazionali un’ottima padronanza del francese e dell’inglese. Ha voluto difendere la credibilità dell’Italia cercando di spiegare agli investitori riottosi e diffidenti che si poteva puntare su un Paese ferito e in declino, prigioniero di un debito pubblico da record. Ha portato a casa qualche euro, come nel suo ultimo viaggio in Medio Oriente. Ma ogni volta che ha messo piede all’estero, qualche bega di casa nostra lo ha riportato alle baruffe italiane. Quando poi Berlusconi, stizzito per la non solidarietà del Pd, del governo e del capo dello Stato sulla vicenda della sua decadenza dal Senato, ha ritirato i suoi ministri, allora Letta ha mostrato un volto pugnace che non tutti avrebbero previsto in un uomo solitamente pacato e conciliante. Ha congelato la manovra per impedire l’aumento dell’Iva, ha chiesto la fiducia in Parlamento ed è riuscito in un’impresa che gli varrà l’ostilità di tutto il mondo berlusconiano: staccare una parte decisiva, ministerializzata e capeggiata da Alfano, del Pdl da Berlusconi. Il 2 ottobre del 2013 è accaduto ciò che non sembrava possibile, con Berlusconi in persona che all’ultimo momento smentisce tutti i suoi pasdaran e conferma la fiducia al governo Letta. Le telecamere ripresero un labiale di Letta rivolto ad Alfano sui banchi del governo a Palazzo Madama a conclusione del breve e spettacolare intervento di Berlusconi: «È un grande… ». Ma quello fu un momento di svolta, una delle pagine decisive del governo presieduto da Letta. Un governo che lo stesso premier volle portare in ritiro spirituale in un magnifico monastero nel Senese e che fu caratterizzato da un memorabile litigio nel pullman tra il presidente del Consiglio e il suo vice Alfano, proprio sulle sorti giudiziarie di Berlusconi. Poi il lungo rosario di provvedimenti. Talvolta annunciati e poi ritirati. Talvolta insaccati dentro decreti omnicomprensivi il cui abuso è stato oggetto di critiche dello stesso Napolitano. Dieci mesi di Zen, di rotture, di flebilissime luci di ripresa. Fino alla conclusione, dove lo Zen non è bastato a mitigare il disappunto di Letta costretto alle dimissioni dal suo stesso partito.
Corriere della Sera – 14 febbraio 2014