Sta arrivando sulla scena del crimine un “poliziotto” grande un millesimo di millimetro. Nemmeno Philip Dick, con Stanislaw Lem il più profetico degli scrittori di fantascienza, avrebbe potuto immaginarlo. Un assassino, che è stato attento a cancellare tracce e impronte, che è entrato e uscito dalla casa insanguinata senza perdere Dna, potrà finire in manette lo stesso. Ma non per merito di un brillante investigatore, ma grazie qualche invisibile batterio: che si porta addosso e non può nascondere ai tecnici di laboratorio.
Dopo la classificazione delle impronte digitali (fine ‘800) e il profilo genetico (Dna, da circa 15 anni), il futuro prossimo dell’identificazione di un essere umano — meglio non dimenticare mai che ciò che per la massa di noi è futuro, per qualcuno è già lavoro quotidiano — sta in una sigla, che bussa alle porte e si chiama (nome inventato in Italia) “mfDNA”: il Dna della microflora. Che cos’è quest’altra arma possibile in dotazione alle polizie globali?
Noi esseri umani — è noto — non siamo fatti solo da cellule, ma anche dai microbi che, annidati nella saliva, o nell’intestino, sono indispensabili per la nostra salute. La svolta sta nel fatto che anche questi microbi hanno un Dna e — deduzione da «Elementare, Watson », ma bisognava averci pensato — esiste una sorta di Dna collettivo di queste popolazioni che costituiscono la nostra microflora. Cerchiamo di capirci bene.
È corretto dire che se esiste una mappatura genetica di ciascun uomo, grazie al Dna, esiste anche la possibilità di avere la mappatura genetica, e quindi inconfondibile, dei batteri che ogni essere umano si porta addosso? «Sì — è la sorprendente risposta del professor Vincenzo Romano Spica, che si occupa di epidemiologia e biotecnologia per l’Università di Roma Foro italico. Il quale aggiunge: «Noi in collaborazione con i Ris abbiamo studiato come identificare un fluido biologico ». E per che cosa serve? «Per stabilire per esempio se una traccia sia saliva, o sudore, o muco vaginale. Se possiamo distinguere un fluido dall’altro, l’informazione diventa preziosa per ricostruire come sono avvenuti fatti. E ci siamo riusciti grazie alla microflora», che insieme con sale, acqua, è una componente dei nostri fluidi. «Ma non solo, anche da una macchia di fango — continua il prof — possiamo risalire a un ambiente, stabilire la natura del terreno e se arrivi da un zona o da un’altra. Noi abbiamo sviluppato queste tecnologie sui “microbiomi ambientali” già dal 2010, mettendo poi a punto un kit in collaborazione con uno spin off universitario Mdd (www.microfor.it) che rivela la “firma biologica” anche sulla scena del crimine».
Tant’è vero che sono entrati anche su un sito internazionale come “top news del mese”. Poi, però, all’università non sono arrivati quei finanziamenti necessari a proseguire la ricerca. Mentre l’Italia aspetta, in America la polizia della Florida ha condotto da qualche mese — lo rivelava Time di agosto — un esperimento sul campo: ha organizzato un’intrusione in una villa isolata da parte di poliziotti finti ladri e poi ha spedito sulla scena del crimine gli esperti di biotecnologia con i tamponi. Non hanno cercato né impronte digitali, né il Dna, ma il microbioma. Sono cioè andati alla ricerca di quella “nuvola” di batteri, protozoi, miceti, virus che ciascuno di noi ha cominciato ad accumulare dall’infanzia. Sulla base di queste analisi, che sono molto meno costose di quelle sul capello o sul Dna, hanno individuato i “ladri”. Esattamente come succede — ma questo esperimento è già più noto — se in una stanza ci sono vari telefoni, e varie persone: un microbiologo può attribuire a ciascuno il suo smartphone senza accenderlo, ma solo confrontando i microbi del padrone con i microbi che stanno sull’apparecchio.
Siamo, cioè, ben oltre il microscopio, siamo alla bioinformatica per risolvere i misteri legati ai crimini. Con sviluppi continui: «Oggi — aggiunge il professor Spica — la disponibilità di nuovissime tecnologie per il sequenziamento ngs, Next-Generation Sequencing, permette di analizzare microbi anche non coltivabili, o ancora sconosciuti». Una mappa sempre più aggiornata di questa nuvola di piccolissimi “agenti” permette a David Kaye, professore all’Università della Pennsylvania ed esperto di scienze forensi, di sostenere che «nel giro di cinque, dieci anni, questo tipo d’indagine batteriologica sarà usata normalmente dai detective».
Forse è un po’ ottimista. Bisogna vedere come avvocati, magistrati e investigatori, almeno nei paesi tecnologicamente avanzati, potranno tramutare i nuovi risultati scientifici in quelle che chiamano «pratiche forensi»: cioè — come successo per il Dna — un giorno si potrà portare il batterio come prova regina nell’aula del tribunale.
10 novembre 2015