II controllo dei conti pubblici a livello nazionale richiede sempre più spesso, giusto o sbagliato che sia, di tagliare risorse alle amministrazioni locali. A guidare la ripartizione dei tagli di risorse tra singoli enti deve essere la revisione dei fabbisogni standard.
Anche in quest’ultima tornata di tagli e sacrifici – quella approvata giovedì notte dal Coniglio dei ministri – le autonomie territoriali lasciano sul terreno morti e feriti. La cura dimagrante della spending review si concentra per circa la metà del totale proprio sui bilanci di regioni, province e comuni, attraverso la riduzione dei trasferimenti statali. La distribuzione dei sacrifici per grandi livelli di governo, lo Stato centrale da un lato e le amministrazioni locali dall’altro, dovrebbe riflettere le compatibilità macro-finanziarie, il merito dei diversi programmi di spesa (tagliare di più la giustizia o la sanità?), le differenze di efficienza nella loro gestione. Più delicata ancora è la questione di come ripartire i tagli complessivi decisi per l’insieme delle autonomie locali tra i singoli enti che quel livello di governo costituiscono. Si dice: mai più tagli lineari, ovvero mai più riduzioni dei trasferimenti in proporzione a quanto quell’ente già riceveva. Bisogna differenziare gli enti, tra quelli su cui calare la scure e quelli da alleviare. D’accordo. Ma come? Il decreto legge sulla spending review è innovativo sotto questo profilo. Le riduzioni di risorse da addossare a ciascuna regione e comune saranno determinate dalle rispettive Conferenze. Ma se in quelle sedi non si arrivasse a un accordo (cosa probabile vista la storia recente) ci penserà il Governo calibrando i tagli alle spese per consumi intermedi sostenute da ciascun ente nel 2o11: chi ha speso di più subirà i tagli più pesanti a tutto vantaggio di chi è stato più parsimonioso. Ma, di più, odi meno, rispetto a che cosa? E se la sovra-spesa di qualche comune fosse effettivamente giustificata dalle sue caratteristiche specifiche? E soprattutto, perché guardare soltanto alla spesa per beni e servizi, quando è noto che le modalità organizzative con cui il comune fornisce i servizi (produzione diretta, affidamento esterno) incidono fortemente sul livello dei consumi intermedi? Nel complesso, è difficile liberarsi dall’impressione che il criterio scelto per “separare i buoni dai cattivi” sia un po’ grossolano, inserito per adeguare anche il segmento della finanza locale al core business dell’operazione spending review condotta dal commissario Bondi. Prima ancora, il decreto Salva Italia del dicembre scorso aveva percorso un’altra strada. La sforbiciata dei trasferimenti statali ai comuni allora prevista veniva ripartita tra i sindaci in proporzione alla distribuzione territoriale della nuova Imu. Non dunque un riferimento alla spesa (totale o parziale che sia) ma alle entrate, e in particolare al principale tributo municipale. L’idea sottostante era semplice: quei comuni che avessero dalla nuova Imu basi imponibili più consistenti su cui esercitare la propria autonomia avrebbero recuperato più facilmente, mediante l’aumento delle aliquote, le risorse tagliate. La questione di come ripartire i sacrifici tra gli enti locali resta dunque quantomeno fluida. Eppure il processo di attuazione della riforma del federalismo fiscale indica, almeno in prospettiva, la soluzione giusta: i fabbisogni standard. Come è noto la riforma prevede che per le funzioni di spesa più importanti di regioni ed enti locali lo Stato garantisca, compatibilmente con le esigenze di coordinamento della finanza pubblica, il finanziamento integrale dei corrispondenti fabbisogni standard: se i tributi propri non bastano, i trasferimenti perequativi devono portare le risorse di ciascun ente al livello dei fabbisogni standard di spesa. E i fabbisogni standard sono le spese di ciascun ente “giustificate” sulla base delle proprie caratteristiche strutturali (popolazione, territorio ecc.) che incidono sulla domanda di servizi dei cittadini e sulle condizioni di produzione. Ma se la regola vale verso l’alto, deve funzionare anche verso il basso. Se il controllo dei conti pubblici a livello nazionale richiede, giusto o sbagliato che sia, di tagliare risorse alle amministrazioni locali, deve essere la revisione dei fabbisogni standard a guidare la ripartizione dei tagli di risorse tra singoli enti e non il riferimento a singole componenti della spesa (i consumi intermedi o il personale) e neppure a specifiche fonti di entrata (i trasferimenti passati o taluni tributi propri). Ma cosa sono concretamente questi fabbisogni standard? La recente approvazione da parte della Copaff (la commissione inter-istituzionale che sovraintende sul piano tecnico all’attuazione della riforma del federalismo fiscale) dei primi fabbisogni standard per i comuni, quelli relativi alla polizia locale, consente di toccare con mano quali siano gli esiti dell’operazione (si veda il Sole 24Ore del 29 giugno). Concretamente l’esercizio di stima, sviluppato a partire da una gran mole di informazioni finanziarie e strutturali, ha portato a determinare per ogni comune italiano una percentuale di assegnazione di risorse da applicare a un fondo complessivo, dedicato alla funzione della polizia locale, la cui dimensione è oggi la spesa effettiva per questo settore nel complesso dei comuni e domani quanto ci si potrà permette alla luce della situazione dei conti pubblici. I fabbisogni standard sono oggi alla prima tappa di un percorso, anche tecnicamente complesso, che arriverà sperabilmente a conclusione il prossimo anno. Almeno in prospettiva i fabbisogni standard chiudono la stagione dei tagli lineari e dei criteri di riparto estemporanei. Ma bisogna evitare che questa grande innovazione si impantani nelle secche della crisi della finanza pubblica.
Prove di riforma. La Copaff (commissione tecnica per l’attuazione della riforma del federalismo) ha approvato i primi fabbisogni standard per i comuni – relativi alla polizia locale – che indicano le spese “giustificate” sulla base delle caratteristiche strutturali di ogni ente
Il Sole 24 Ore – 9 luglio 2012