
Il mobbing può essere provato anche con le presunzioni. Cassazione e Consiglio di Stato alleggeriscono l’onere della prova
Il rischio di richieste risarcitorie pretestuose, ha messo la giurisprudenza sulla difensiva, dando al lavoratore l’onere non solo della prova dell’elemento “oggettivo” del mobbing, e cioè la pluralità di azioni dirette alla sua umiliazioni personale e professionale – sia illecite, quale il demansionamento, irrogazione di sanzioni disciplinari infondate o controlli ingiustificati e ossessivi, ma anche lecite, attuate attraverso omissioni, quali la mancanza di valorizzazione del dipendente, o lo svuotamento delle attività assegnate, o l’eccessivo carico di lavoro – ma anche dell’elemento soggettivo persecutorio del datore di lavoro. Elementi entrambi richiesti dalla consolidata giurisprudenza, sebbene riconducibili alla violazione, di natura contrattuale e non extracontrattuale (con il conseguente termine decennale di prescrizione – dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore gravante sul datore di lavoro in base all’articolo 2087 del Codice civile). Ricorda infatti il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, che la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing richiede alla vittima di provare il dolo del mobber, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale, «essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale». Questa circostanza, però, si può rivelare una probatio diabolica, con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria, e, forse, una giustizia negata. Per questo, appare più che giustificata la legittimazione giurisprudenziale al ricorso a elementi oggettivi di natura presuntiva, dai quali desumere l’intento persecutorio, la cui valutazione è affidata alla prudente valutazione del giudice del merito (si veda da ultimo la sentenza della Corte d’appello di Roma del 24 settembre 2019, che ha confermato gli elementi sintomatici del mobbing, già riconosciuti dal Tribunale).
Sotto il profilo della supervisione del giudice di legittimità, non è stato ritenuto sufficiente, ai fini del riconoscimento dell’intento persecutorio nei confronti del lavoratore, limitarsi a «dedurre che mentre ai colleghi fu consentito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno, solo a lei (a una dipendente, ndr.) fu impedito» (Cassazione, sent. 23918 del 2019).