di Marco Galluzzo Non sarà una manovra elettorale, ma dovrà essere espansiva. Non avrà interventi di rilievo sulla domanda, piuttosto sarà quasi interamente concentrata sull’offerta: produttività e competitività, investimenti pubblici strategici, misure per colmare il gap strutturale in termini di crescita del nostro Paese, saranno le linee guida. Sia per una ragione di politica economica, sia per il necessario negoziato con Bruxelles, che dopo il 20 ottobre — quando Roma dovrà inviare il primo schema di manovra alla Commissione — si aprirà con il collegio coordinato dal presidente Jean-Claude Juncker.
Alle analisi poco lusinghiere che in questi giorni pubblicano i quotidiani internazionali — mettendo il dito nella piaga di un Pil italiano fermo e rimarcando una storia arcinota (che ha persino echi berlusconiani: il Paese fermo e le riforme fin qui varate da Renzi che stentano a produrre dei frutti) —, a tutto questo, a Palazzo Chigi, replicano tracciando un quadro politico prudente, ma anche molto chiaro. È certo che Renzi chiederà di deviare dal percorso di finanza pubblica sin qui concordato con la Ue; ma è altrettanto certo che il negoziato che aprirà con la Commissione sarà tanto più produttivo quanto più la legge di Stabilità verrà giudicata anticiclica, strategica, in grado di mitigare in modo deciso i difetti della nostra economia.
Insomma, in modo ufficioso anche chi lavora a stretto contatto con il premier, pur senza dare cifre (si potrà cominciare solo quando ci sarà un quadro chiaro di finanza pubblica, non prima di fine settembre), ammette che il governo si sta preparando a chiedere per il secondo anno di fila una deroga al rispetto delle regole su deficit. Le strade sono due: l’Italia può chiedere di finanziare parte della manovra in deficit ulteriore contestando la linea dell’Ecofin, ovvero dei ministri europei dell’Economia, che considerano una tantum il riconoscimento di flessibilità sui conti. Oppure può chiedere la stessa cosa, e dunque una sorta di sforamento (non dalla regola del 3%, ma dal percorso di rientro del deficit), sottolineando le circostanze eccezionali della nostra economia, nel contesto di incertezza provocato da fattori esterni, Brexit in testa.
Di sicuro Renzi, di fronte alla battuta di arresto del Pil, per la prima volta si trova a fronteggiare un coro quasi unanime di critiche dei principali analisti e media stranieri, coro che ha sfumature diverse ma tutte incentrate sul leit motiv non inedito di «Italia malata cronica della Ue». È tuttavia consapevole che quella che dovrà cominciare ad impostare nelle prossime settimane sarà una manovra cruciale, non solo dal punto di vista economico, ma — come ha sottolineato persino il New York Times — anche dal punto di vista politico. La tesi del giornale anglosassone è che Renzi potrà anche vincere il referendum, ma se non vince la partita sull’economia rischia di incamminarsi verso un inesorabile declino.
Altrettanto sicuro è che la legge di Stabilità, e il negoziato che si aprirà con la Commissione e di riflesso anche con Berlino (la settimana prossima l’incontro a Ventotene con la cancelliera, oltre che con Hollande), saranno all’insegna di quello che Renzi pensa e dice, anche nelle ultime uscite pubbliche, dell’insieme di regole che Bruxelles si è data e valgono per i Paesi di Eurolandia: «Di austerity non se ne può più».
Prima di andare in ferie, il premier ha rimesso nel mirino la Ue: «È a un bivio, o rilancia sui contenuti e valori o è un insieme tecnocratico che non serve più a niente». Il negoziato, lontano dai riflettori, è insomma già iniziato.
E sarà anche molto lungo: un anno fa fu avviato un percorso che durò almeno sei mesi, sino al disco verde finale della Commissione, in primavera. Quest’anno, oltre alla qualità della manovra, influirà certamente sul braccio di ferro con la Ue l’esito del referendum istituzionale. La «nuova fase di stabilità» cui il premier aspira, parole sue, in caso di vittoria del Sì, darebbe benzina per qualche decimale in più di deficit.
Il Corriere della Sera – 17 agosto 2016