di Tino Oldani. Il caso Grecia accentra giustamente l’attenzione dei media e lascia ormai poco spazio al resto. Il clima di allarme sul futuro dell’euro spinge i mercati al ribasso, e tutti, élites e ceto medio, si chiedono preoccupati se sono a rischio anche i risparmi e i depositi bancari di casa nostra.
Un clima che, per quanto paradossale, sta aiutando il governo di Matteo Renzi a tenere spenti i fari sui conti pubblici dell’Italia, soprattutto sull’entità della manovra necessaria per riportarli sotto controllo, in linea con le direttive di Bruxelles. Se n’è avuta una conferma anche ieri: intervistato da un quotidiano, Renzi si è ben guardato dallo smentire l’ipotesi (circolante da giorni) di una prossima manovra di 20 miliardi, anzi con la solita aria di sfida si è detto certo del contrario: “Noi siamo quelli che le tasse le abbassano, non le alzano. Nel 2016 scommetto su una ulteriore riduzione del carico fiscale. Ma ancora è presto per parlarne. Ne parleremo a settembre”.
Riduzione delle tasse? Edoardo Narduzzi, giusto ieri, ha spiegato su Italia Oggi come la pressione fiscale in Italia sia diventata intollerabile. Il peso delle tasse nel 2014 è stato del 43,5%, dato certificato dalla Corte dei conti con una relazione di Enrica Laterza, in cui si fa notare che, a fronte di 700 nuove misure tributarie tra il 2008 e il 2014, nulla o quasi è stato fatto sul lato della riduzione della spesa. Non solo. Qualche Regione, come il Lazio guidato da Nicola Zingaretti, ha pensato bene di aggiungere un’addizionale Irpef del 3,3% (record nazionale negativo) al già pesante carico fiscale, nel tentativo di colmare la voragine della sanità regionale. Il che fa venire l’orticaria ai contribuenti di Roma e del Lazio quando sentono Renzi e Padoan vantarsi di tasse già ridotte.
Ma il peggio è dietro l’angolo. A settembre il governo dovrà mettere a punto la Legge di stabilità 2016. A quel punto, basterà mettere in fila alcune voci di spesa per capire che la manovra finanziaria dovrà partire con un buco di circa 20 miliardi, e trovare (in modo credibile per l’Europa) le risorse per tapparlo. In concreto, una scelta inevitabile tra un altro aumento delle tasse, oppure un taglio drastico alla spesa pubblica, di dimensioni finora mai viste. A discolpa di Renzi e del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, va detto che la responsabilità maggiore del buco di 20 miliardi non è del governo, anche se quest’ultimo non è esente da responsabilità.
Nel conto, per cominciare, vanno messi gli effetti di un paio di sentenze della Corte costituzionale. La prima, che ha dichiarato illegittima la de-indicizzazione delle pensioni, obbliga il governo a trovare almeno 3 miliardi nel 2016 per un’applicazione della sentenza che non sarà totale, poiché il governo intende limitarla alle pensioni sotto i 3mila euro lordi al mese. La seconda sentenza, che ha fatto salvo il blocco salariale del pubblico impiego per il passato, ma non per il futuro, obbligherà il governo ad aumentare le buste paga di oltre tre milioni di dipendenti pubblici.
L’onere, tutto da calcolare, non sarà lieve. Il monte salari del pubblico impiego, bloccato dal 2010, è sceso in cinque anni da 172 a 163 miliardi. Nell’ipotesi di un aumento del 4%, comprensivo di un parziale recupero per il passato, il costo sarebbe di almeno 8 miliardi in tre anni, pari a 2,7 miliardi l’anno. Esborsi non previsti e tutti da trovare, insieme ad altre spese che non erano state messe in conto, come gli 800 milioni della reverse charge bocciata dall’Unione europea, oltre ai 3,3 miliardi necessari per sterilizzare una clausola di salvaguardia che era contenuta nella legge di stabilità del governo Letta.
Quella clausola, in origine, valeva 7 miliardi sul 2016, da realizzare con un taglio automatico delle agevolazioni fiscali. Il governo Renzi ne ha attenuato la portata, ma restano pur sempre 3,3 miliardi da coprire se non si vuole andare ora a colpire le agevolazioni più diffuse sul piano sociale, come le detrazioni e le deduzioni per carichi familiari. Infine, entra in gioco una seconda clausola di salvaguardia, che porta per intero la firma di Renzi, in quanto prevista dalla Legge di stabilità 2015: si tratta della somma più cospicua, ben 12 miliardi. Un onere che Renzi ha rinviato, scaricandolo sul bilancio statale del 2016 sotto forma di aumento automatico delle aliquote Iva, a meno che il governo non riesca a tagliare la spesa pubblica di uno stesso importo, a partire dal primo gennaio: impresa tutt’altro che facile.
Più volte i due addetti renziani alla spending review (Yoram Gutgeld e Roberto Perotti) insediati da Renzi al posto di Carlo Cottarelli hanno assicurato che riusciranno a tagliare dieci miliardi di spesa pubblica nel 2016, senza però indicare le poste di bilancio da ridurre. Se non ci riusciranno, l’aumento delle aliquote Iva previste dalla clausola di salvaguardia, essendo già ora legge dello Stato, scatteranno in modo automatico. Così 4,6 miliardi saranno prodotti dall’aumento dell’aliquota agevolata (dal 10 al 12%), e altri 8,1 miliardi da quello dell’aliquota ordinaria (dal 22 al 24%). «Le clausole di salvaguardia non scatteranno» ha promesso Renzi. Non ha spiegato perché. Ma ha ammesso: “Certo, non sarà facile”. Chissà se a settembre si parlerà ancora della Grecia e di tasse ridotte.
ItaliaOggi – 1 luglio 2015