Il Sole 24 Ore lunedì. I protocolli sanitari anti Covid sono strumenti ancora validi per gestire le misure contro la pandemia? Con l’approvazione dei primi vaccini e l’avvio della campagna per la loro somministrazione di massa, questi protocolli devono essere aggiornati? E se non sono aggiornati, restano comunque validi e vincolanti per le imprese oppure diventano inefficaci?
Queste le domande che circolano con frequenza sempre maggiore tra le aziende e gli operatori che si occupano di sicurezza sul lavoro, dopo che la scoperta dei vaccini contro il Covid ha cambiato e ampliato in modo importante il pacchetto di strumenti che possono essere messi in campo per combattere la diffusione del virus.
Non si può dare una risposta completa a queste domande senza ricordare che cosa sono i protocolli sanitari, degli accordi nati spontaneamente durante il lockdown e ben presto “avallati” dal Governo e dal legislatore come strumenti essenziali per consentire alle imprese di superare la fase di chiusura totale garantendo il rientro dei lavoratori in azienda con criteri e modalità sicure.
Questi protocolli hanno funzionato molto bene: la condivisione tra le parti sociali ha aiutato la scrittura di regole adeguate e ha favorito la loro applicazione nelle imprese. Un successo talmente forte da generare un importante avallo legislativo con la legge di conversione del decreto-legge 23 dell’8 aprile 2020, che ha sancito (all’articolo 29-bis) un principio fondamentale: il rispetto e il mantenimento delle prescrizioni dei protocolli anticontagio, secondo le specifiche attività svolte, costituiscono forme di adempimento dell’articolo 2087 del Codice civile, uno dei principi fondamentali sui cui è imperniato l’intero sistema normativo di prevenzione nel nostro ordinamento.
Sulla base di questa norma, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e negli altri protocolli, linee guida e accordi approvati dalle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, è sufficiente a escludere la responsabilità del datore di lavoro per eventuali contagi dei dipendenti.
Una sorta di “presunzione di innocenza” molto importante, che ha garantito alle imprese rispettose delle misure di prevenzione di gestire in modo equilibrato i rischi connessi al contagio dei dipendenti.
Nella stessa ottica di rafforzamento dei protocolli, lo stesso decreto legge stabilisce che le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali.
Il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali, che non assicuri adeguati livelli di protezione determina quindi anche la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.
Queste misure ci confermano che la scelta del legislatore è chiara e netta: il pacchetto di misure anti Covid che vanno applicate in azienda si trova nei protocolli, e il loro rispetto è condizione necessaria e sufficiente per rispettare gli obblighi di prevenzione.
I dubbi sulla validità e attualità di questi documenti si legano al fatto che i protocolli possono, di volta in volta, essere modificati e aggiornati dalle parti sociali, in funzione delle innovazioni tecnologiche e scientifiche, come la scoperta di un vaccino.
L’intervento di queste novità può e deve essere sicuramente considerato ai fini di un eventuale aggiornamento dei protocolli, ma non è un elemento sufficiente a togliere validità ed efficacia ai testi già concordati, che mantengono forza vincolante (devono essere applicati) ed efficacia scriminante (il datore di lavoro che li applica può considerarsi un soggetto che rispetta l’articolo 2087 del Codice civile).
Certamente, le parti sociali devono porsi l’interrogativo sull’opportunità di adeguare i protocolli rispetto alle innovazioni scientifiche emerse in tema di vaccini, eventualmente modificandoli in relazione ad alcune mansioni o settori specifici, dove il rifiuto del vaccino può avere un impatto negativo sull’idoneità alla mansione del dipendente. Ma è una scelta di merito che non inficia la validità delle procedure esistenti.
Il Sole 24 Ore
Giampiero Falasca