Alessandro Barbera. In pensione anticipata anche a 60 o 62 anni rinunciando al 20-30 per cento dell’assegno: alzi la mano chi non ci penserebbe almeno un minuto. Sulla carta è la soluzione che fa tutti felici. Più libertà per il lavoratore, meno complicazioni per chi governa (vedi esodati), un’occasione per le imprese che possono assumere persone giovani e più produttive.
Ma non è una strada che si percorre gratis; vale per chi decide di lasciare il lavoro e per lo Stato. Le pensioni italiane valgono più di 270 miliardi di spesa, ora in sicurezza grazie alla riforma del 2011. «Avremmo voluto introdurre più flessibilità, ma non si poteva. Perché ogni soluzione ha un costo», spiega oggi Elsa Fornero. «Qualunque soluzione adotteremo dovrà rendere il sistema ancora più sostenibile», risponde il responsabile economia Pd Filippo Taddei. Nel breve periodo, almeno nei primi anni, il governo è rassegnato a sostenere un costo, l’importante è che nel lungo periodo la «gobba» previdenziale scenda di più. Ma quel costo dovrà essere in ogni caso contenuto, pena la censura dell’Europa, già preoccupata dagli annunci del premier.
La penalizzazione
Dunque? La variabile decisiva si chiama «penalizzazione». È lo scoglio di fronte al quale sono andate a sbattere tutte le ipotesi finora discusse. L’ultima in ordine di tempo – l’idea è di Pierpaolo Baretta e Cesare Damiano – prevede di ridurre l’assegno del due per cento per ogni anno di uscita anticipata. Per capirsi: se la pensione del signor Bianchi è prevista a 66 anni (l’età minima prevista oggi) con un assegno di duemila euro al mese, potrebbe andarsene a 62 perdendo l’8 per cento, 160 euro al mese. C’è un però: questa ipotesi costa comunque allo Stato fra i tre e i quattro miliardi l’anno. Al taglio secco dell’assegno ci sono due alternative: se l’impresa gli offre una buonuscita, potrebbe rinunciare a parte di essa, oppure chiedere il cosiddetto prestito previdenziale. Invece di rinunciare a parte dell’assegno, il signor Bianchi potrebbe accettare per i primi quattro anni un assegno più basso, restituendo la cifra anticipata a rate solo a partire dal momento in cui era previsto il pensionamento ordinario.
L’ipotesi Boeri
Nello schema del governo c’è una ulteriore variabile: far pagare di più a chi è andato in pensione almeno in parte con il vecchio sistema retributivo, più generoso del contributivo perché concede più di quanto effettivamente versato nella vita lavorativa. Il presidente dell’Inps Tito Boeri propone di finanziare così parte della riforma: ai redditi più alti potrebbe essere chiesto una sorta di contributo di solidarietà. È la proposta del consigliere di Palazzo Chigi Yoram Gutgeld, in passato sposata dallo stesso Renzi, ma che rischia di finire di nuovo di fronte alla Corte Costituzionale. Ecco che allora all’Inps hanno iniziato a ragionare su una ulteriore variante: calcolare una penalizzazione più forte per la parte di pensione concessa con il retributivo.
Il signor Bianchi
In caso di uscita a 62 anni invece che a 66 – spiegano all’Inps – il signor Bianchi verrebbe ridursi l’assegno di circa il 20-30%. Il numero è frutto di una complessa operazione in cui, alla penalizzazione prevista per la parte di pensione calcolata con il contributivo, se ne somma una parte (per almeno il 12 per cento) sulla quota di assegno retributivo. Non è chiaro se l’ipotesi prevederà un minimo di contribuzione per l’uscita, ma le indiscrezioni dicono che potrebbe essere concessa anche a 60 anni. Lo schema prevede una opzione ulteriore: usare il sistema in vigore per la cosiddetta «opzione donna» che oggi permette di uscire con 57 anni di età e 35 di contributi.
La Stampa – 20 maggio 2015