Jenner Meletti. «El mester de la filanda / l’è el mester degli assassini…». Cantavano per farsi coraggio, le filandere. Otto, dieci ore con le mani nell’acqua quasi bollente, gli occhi stanchi di cercare il filo del bozzolo. «Poverette quelle figlie / che sono dentro a lavorar». Sono state chiuse più di quarant’anni fa, le ultime filande italiane. Ma stanno risorgendo. «Per fortuna — dice Silvia Cappellozza, responsabile dell’unità di ricerca sulla bachicoltura al Cra, Centro ricerche agricole di Padova — ci sono nuove tecnologie che permetteranno di eliminare i lavori più pesanti e pericolosi. Non più acqua bollente e vapori, non più file di filandere in piedi dall’alba all’ultima luce del tramonto». Uscivano nere di fumo, le ragazze e le donne. «Tucc me disen che sono nera / e l’è el fumm de la caldera». «La bachicoltura può riprendere — dice la ricercatrice — perché il nostro istituto, che dipende dal ministero dell’Agricoltura, da decenni conserva i “cavalieri”».
«Venivano chiamati così, i bachi nel nostro Veneto. Forse perché nascevano il giorno di San Giorgio, il cavaliere che uccide i draghi, o perché i bachi, quando sono vicini alla filatura, muovono la testa e caracollano, appunto, come cavalieri».
Un po’ di storia, molta leggenda. Il fatto certo è che, negli anni ‘50, in Veneto c’erano 40.000 aziende agricole che allevavano bachi da seta, integrando il magro reddito di contadini e mezzadri.
«Adesso — racconta Fernando Pellizzari, che è stato l’ultimo presidente dell’Anb, l’associazione nazionale dei bachicoltori — possiamo ripartire. Il nostro obiettivo è creare 1.000 aziende venete entro cinque o sei anni». Il rilancio del baco da seta è stato presentato nell’ex filanda Motta di Campocroce di Mogliano, dove lavoravano 100 operaie tutto l’anno e 250 filandere stagionali a giugno e luglio, quando si raccolgono le foglie dei gelsi, il cibo dei bachi. “La bellezza appesa a un filo di seta”, il titolo del convegno, organizzato da Donne Impresa di Coldiretti. «Le filande sono scomparse — ricorda Fernando Pellizzari — quando gli imprenditori lombardi e veneti hanno spostato impianti e produzione nell’est europeo, soprattutto in Bulgaria. Qui non c’era più mercato. I cinesi, primi produttori al mondo, già negli anni ‘70 riuscivano a esportare la seta a 17 dollari al chilo, mentre in Italia il costo della produzione era di 24 dollari. Adesso le cose sono cambiate. In Cina, anche a causa del forte inquinamento, i gelsi stanno scomparendo e non a caso quel Paese sta comprando enormi appezzamenti di terreno in Africa, per spostare là la coltivazione di queste pian- Ora sul mercato la seta costa 75 euro al chilo: con i nostri gelsi, possiamo tornare in pista».
Il primo a partire è stato Giampietro Zonta, gioielliere di Nove. «Avevo bisogno di buona seta per i miei gioielli. Ho fatto ristrutturare una macchina filatrice e per la produzione di bozzoli ho chiesto aiuto a tre cooperative agricole dove sono impegnati anche ragazzi disabili». La prima produzione è arrivata l’anno scorso, con 450 chilogrammi di bozzoli freschi. «Sul mercato — dice l’ex presidente dell’Anb — c’è adesso, per fortuna, una forte richiesta di seta italiana da parte delle industrie tessili. Quest’anno sono al lavoro già venticinque allevatori: è un primo passo verso i mille. Stiamo piantando i gelsi, che grazie al cielo già dopo tre anni producono foglie abbondanti ».
Queste piante erano quasi scomparse a causa del fenoxicarb, un insetticida che ha salvato frutteti di mele, pere e pesche ma che rovinato i gelsi. «Ripartiamo dai bacolini, i bachi nati da un giorno. Li prendiamo al Cra di Padova, dove sono conservate 193 razze in purezza. Un bozzolo di baco puro produce un filo di 250 metri. Quelli ibridi, che noi usiamo, arrivano a 1.200 metri. Non è una vita bella, quella dei nostri “cavalieri”. Dalla nascita alla morte, passando da uovo, bruco, crisalide, falena, passano appena 28 giorni. Il baco è però come un piccolo maiale, non si butta via nulla. La crisalide viene usata nei mangimi animali e si fa anche un olio per l’industria della cosmesi».
Sembra una villa palladiana, l’ex filanda Motta. «Le filandere — racconta Ugo Franco, il titolare — hanno cominciato a lavorare qui già alla fine dell’800. Una vita dura ma si portava a casa il pane. C’era il ciclo completo, dall’essicatoio che faceva morire la crisalide prima che forasse il bozzolo di seta fino alla filanda vera e propria, con le donne che cercavano nell’acqua calda il capo — filo da avvolgere poi nella matassa». Altre donne avrebbero indossato quella seta. Loro, le filandere, ricevevano il loro compenso ogni sabato sera. C’è ancora il portone in ferro con due spioncini in vetro. Le donne si mettevano in fila per ricevere i soldi, e non solo. C’erano anche le multe, per chi aveva spezzato i fili o secondo la sorvegliante non aveva lavorato bene. Non vedevano nemmeno in faccia chi consegnava denaro e sanzioni. «E se sbaglio una sola volta — cantavano le filandere — me la multa mi tocca pagar». «Siam trattate come cani / come cani alla catena / non è questa la maniera / o di farci lavorar».
Repubblica – 9 marzo 2015