Oltre il 70% delle piccole aziende del settore alimentare e quasi il 30% delle grandi non avrebbe le carte in regola sulla documentazione che accerta la purezza dei materiali di imballaggio a contatto con gli alimenti. È quanto emerge dai dati presentati poco tempo fa dalla Nederlandse Voedsel en Warenautoriteit –NVWA (Autorità olandese per la sicurezza alimentare).
Il presupposto necessario per la produzione di imballaggi e articoli destinati al mondo alimentare è l’impiego di materiali adeguati con un grado di purezza tale da poter essere posti a contatto con l’alimento senza cedere sostanze tossiche in grado di generare rischi per il consumatore.
In sostanza se parliamo di materie plastiche è facile immaginare che la plastica con cui vengono prodotti i cerchioni di un’automobile o le panchine di un parco non sia la stessa impiegata per un biberon o una bottiglia di latte. La normativa prevede che chi commercializza materiali di imballaggio deve rispettare le severe normative europee in materia, ed è obbligato ad accertare il grado di purezza dei materiali che sta utlizzando, attraverso una “Dichiarazione di conformità alimentare” (in inglese food grade declaration) che dovrebbe accompagnare l’articolo dalla nascita (quando ancora in forma di polimero non lavorato) fino all’arrivo sugli scaffali dei negozi.
Questa documentazione, non è di dominio pubblico, ma consente di fare conoscere a tutti gli operatori del processo di produzione se una determinata plastica contiene sostanze pericolose che non devono migrare nell’alimento (BPA, ftalati…). Sulla base di questo certificato di conformità si può stabilire la qualità del prodotto sul mercato e valutare la sicurezza per i consumatori. Il problema è serio perché solo attraverso questi documenti è possibile conoscere gli “ingredienti” contenuti in un composto e comportarsi di conseguenza. Pensando al lungo percorso che il cibo fa prima di arrivare sulle nostre tavole, è facile immaginare gli innumerevoli materiali, plastici e non, con cui entra in contatto: nastri trasportatori, macchinari di produzione fino agli imballaggi dello scaffale.
Lo studio sembrerebbe limitato agli imballaggi alimentari, ma potrebbe riguardare anche oggetti di uso comune come stoviglie, utensili e attrezzature da cucina. Le conclusioni delle autorità olandesi non lasciano tranquilli: non può essere fatta nessuna valutazione circa il rischio reale in quanto la ricerca ha fatto solo una valutazione sulla presenza della documentazione corretta, senza eseguire test specifici. Le autorità di controllo europee non sembrano essere molto concentrate su questo problema (come dimostra il numero irrisorio di ritiri effettuati dal RASFF su questo aspetto). Dopo la pubblicazione di questo studio è auspicabile nei prossimi mesi un decisivo cambiamento di rotta.
Luca Foltran – Il Fatto alimentare – 22 luglio 2014