Da noi ci si adegua con lentezza alle modeste regole comunitarie per garantire gli animali: 17 milioni galline sono tuttora prigioniere di strutture vietate. Il consumo di carne è enormemente aumentato
Si stima che il fabbisogno annuo di proteine animali si aggiri sui 35 kg all’anno: noi abbiamo superato i novanta. Un danno anche per l’ambiente, come spiega Carlo Petrini di Slow Food
“Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad aver sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza?”, scrisse Plutarco in uno dei suoi Moralia poco meno di duemila anni fa. Eppure oggi gli animali terrestri di allevamento (i pesci raddoppierebbero il totale) destinati alla macellazione si quantificano in 70 miliardi, di cui 55 sono polli. Da loro, derivano ogni anno 280 milioni di tonnellate di carne. Sempre più famelici, i mercati spingono sui grandi numeri attraverso strategie intensive di allevamento e consumo, spazzando via anche l’ultima possibilità di riconoscere che il prodotto è un essere vivente. Ma oltre a rendere atroce la breve esistenza degli animali destinati al mattatoio, la prassi della mega quantità pone pesanti interrogativi circa la salute umana, l’impatto ambientale, una sistematica mancanza di informazione che impedisce di scegliere consapevolmente. Ne è prova recente il scandalo internazionale sulla carne di cavallo, spacciata per manzo in una gamma di prodotti di larga diffusione: qui la fiducia del consumatore si vorrebbe tradita dallo scambio fra specie, quando in realtà dietro a un utilizzo tanto ampio degli equini si accredita con forza l’ipotesi della macellazione clandestina e massiccia di esemplari scartati dallo sport perché anziani o malati, quasi sempre contaminati da farmaci.
Difficile ragionare, quando tutto preme verso un consumo sfrenato e stabulazioni di massimo concentramento. Nel primo Dopoguerra l’italiano medio consumava 18 kg di carne l’anno, oggi è arrivato a 92, cui se ne sommano 23 di pesce, 7 di uova e 100 litri di latte, quando l’eventuale fabbisogno di proteine animali – in condizioni di benessere – si stima in 35 kg complessivi. Le vacche all’ingrasso risalgono agli anni 60, ma la vera accelerazione della zootecnia intensiva si avvia negli anni 80. Attualmente, delle 150mila tonnellate di pesce che si consumano annualmente nel mondo, 65 provengono dall’allevamento intensivo, che a breve raggiungerà il 50% degli affari ittici. Ovunque si assiste a una progressiva scomparsa delle piccole imprese divorate dalle grandi.
Stando a dati Fao, da noi nel 2011 sono stati allevati e macellati 9.321.120 maiali,7.900.020 ovini, 5.832.460 bovini, 300mila cavalli, 365.086 bufali, 24mila asini, 9mila muli, 982.918 capre e 150 milioni di conigli. Nello stesso anno Eurostat ci attribuisce pure 508,8 milioni di polli.
“Ci adeguiamo alle indicazioni della Banca Mondiale, agli interessi delle multinazionali di semi, farmaci e fitofarmaci. Almeno il 74% del pollame mondiale, il 68% delle galline ovaiole e il 43% dei bovini è radunato ormai negli allevamenti intensivi”, spiega Enrico Moriconi, dirigente SSN e consulente su etologia e benessere animale. In Italia poi ci si adegua con inaudita lentezza alle modeste regole comunitarie stabilite per garantire gli animali, cosicché buona parte degli allevamenti è fuori regola. Vedi i 13 anni non sufficienti, da noi, ad applicare la normativa che nel 1999 che ha proibito le vecchie gabbie di batteria per le galline ovaiole in favore di soluzioni un po’ meno micidiali. Quasi tutti gli stati hanno compiuto sforzi per adeguarsi, tranne l’Italia: dei 20 milioni di galline ancora prigioniere nelle strutture vietate, 17 sono nel Bel Paese e 3 in Grecia. Ma sul rispetto di queste e altre misure, che possono alleviare solo leggermente i patimenti di conigli, mucche da latte, maiali, tacchini e tanti altri animali, si chiude un occhio.
“Ben pochi sanno cosa avvenga negli allevamenti” dicono da Nemesi Animale, gruppo specializzato in dossier informativi e investigazioni: “Documentiamo che la sofferenza è lo standard, mostriamo sguardi tristi e atterriti, contestiamo la comoda idea che gli animali siano oggetti.”
“E’ vero, sugli adeguamenti delle strutture siamo indietro, ma mettere a norma ha un costo che le aziende non sostengono. Mancano contributi per un piano di sviluppo rurale”, dice Mario Guidi, presidente di Confagricoltura, che indica le erogazioni 2011 alla zootecnia comunitaria da parte del Fondo europeo agricolo di garanzia in 1.141,8 milioni di euro di pagamenti diretti e 1.390,8 milioni di euro di interventi di mercato: “la produzione europea rende però oltre 150 miliardi”.
Le imprese godono di altri importanti aiuti: contributi locali, sostegno agli impianti di biogas fatti con i liquami, sovvenzioni ai seminativi – destinati questi ultimi agli animali per il 42% della produzione europea: 13 milioni di tonnellate. E quattro regioni italiane – Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte – fruiscono di una speciale deroga alla direttiva comunitaria che protegge le acque dai nitrati agricoli, benché si stimi che in Pianura Padana si allevi il 65% dei bovini e il 75% dei suini nazionali. “Non esistono più barriere fitosanitarie,” lamenta Guidi. “Ci tocca resistere all’ingresso libero di carni da paesi come l’Argentina, mentre importiamo l’80% della soia necessaria al nostro bestiame”. Si ovvierà quindi con il contestato ritorno alla somministrazione di farine animali negli allevamenti, a 13 anni dall’allarme mucca pazza. “Siamo contrari”, afferma Stefano Masini, responsabile Ambiente e Territorio di Coldiretti. “Bisogna puntare su prodotti migliori e più cari. Al contrario di Francia o Sudamerica abbiamo territori limitati: no alla tendenza ad aumentare i numeri e ridurre i costi”.
“Reintrodurre le farine di carne significa riciclare proteine nobili, scarti di macelleria e sangue, che altrimenti andrebbero distrutti. L’Efsa ha espresso pareri che aprono nuovamente, sebbene con cautela, al loro impiego zootecnico”, ribatte Umberto Agrimi, direttore del Dipartimento di Sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare dell’ISS-Istituto superiore di sanità. Riguardo la Bse, dal 2000 a oggi i controlli sui bovini sono andati diminuendo, e pure quelli istituzionali per individuare le sostanze proibite, ormoni e antibiotici, sono irrisori. Si testano 12 polli ogni milione di esemplari uccisi, confidando nelle autocertificazioni aziendali, sulla cui attendibilità bastano le disonestà scoperte sulle quote latte a suscitare sospetti.
“Si continua a parlare di rispetto della legalità, quando ci collochiamo in Europa fra i peggiori trasgressori alle principali norme protezionistiche. Il concetto di qualità del risultato finale viene scisso dalla qualità di vita degli animali. Mentre il loro benessere dovrebbe essere considerato sia in termini fisici che psicologici. Dovrebbero essere liberi dal dolore e nella condizione di esprimere comportamenti naturali”, dice Annamaria Pisapia, direttore della sede italiana di Compassion in World Farming, ong fondata nel 1967 da un allevatore inglese intenzionato a promuovere pratiche più rispettose degli animali. “Mi chiedo come i nostri politici possano giustificare tanta inadeguatezza. Riconosciuti esseri senzienti dalla Costituzione Europea gli animali provano gioia, dolore, paura, stress e devono essere trattati con rispetto. E la trasparenza verso il cittadino imporrebbe marchi e certificazioni chiari sui metodi di allevamento di ogni animale o derivato in commercio: è una delle nostre prime richieste”. Invece, numeri per il sistema, avvolti dall’ombra gli esemplari da carne scorrono lungo la filiera a loro riservata. Subiscono maltrattamenti terribili e inutili, dalle condizioni di vita nelle stalle fino ai viaggi verso il mattatoio, spesso lunghissimi e crudeli. Spintonati e percossi per scendere dai camion, storditi sommariamente prima di essere fatti a pezzi o scuoiati, persino immersi ancora vigili nell’acqua bollente. Se una sola azienda del Lazio, vicino Latina, dichiara sul proprio sito di macellare e scuoiare fra i 500 e i 700mila capi l’anno, tenendone fino a 15mila insieme nelle stalle di sosta, per “lavorarne” al ritmo di mille all’ora, quale garbo si può ipotizzare nei loro confronti?
“Nei nostri macelli non è così”, obietta Davide Calderone, direttore di Assica-Associazione industriali delle carni e dei salumi. Secondo i suoi dati le imprese maggiori macellano tremila suini al giorno: “Gli animali non rimangono mai più di 24 ore nelle stalle di sosta, e c’è l’obbligo di registrare lo stordimento avvenuto: se non fossero immobili, si agiterebbero durante il taglio della giugulare. Gli operai sono quasi tutti stranieri, per gli italiani è diventata manovalanza troppo dura”. Dall’Aia-Associazione italiana allevatori confermano: “Anche in stalla, per il 90% lavorano immigrati”.
Sofferenza, farmaci, produzione all’eccesso, sono stati individuati anche responsabili di epidemie quali Bse, Sars, Aviaria, Suina, una varietà di batteri killer. Non di rado, i genitori di bambine cui a quattro, cinque anni inizia a svilupparsi il seno, si sentono rispondere dal pediatra di abolire il pollo: come per magia, le fattezze della piccola tornano infantili. Per chi abbia letto The China Study, bestseller frutto della ricerca trentennale di T. Colin Campbell, è lampante la correlazione che può crearsi tra il consumo di proteine di origine animale e patologie degenerative fra cui tumori, diabete, malattie cardiovascolari. Ciò nonostante, per incrementare ancora produzione e consumo di carne, l’UE si avvia a introdurre nella catena alimentare esemplari clonati, mentre l’utente è sollecitato da pubblicità poco realistiche: gioiose mucche da latte – la maggior parte di esse non ha accesso al pascolo e soffre di spaventose mastiti – garruli galletti, oltre a un’armata di programmi tv sulla cucina.
“Basta scansare nervi e grasso, mangiare carne è un processo a 360 gradi” afferma Sergio Capaldo, consulente veterinario di Slow Food, il cui slogan recita “cibo buono e giusto”. Qual è allora, verso gli animali, la linea di confine fra giusto e ingiusto? “Eccettuate pratiche estreme, non è facile definirla”, risponde il fondatore Carlo Petrini. “Da anni invitiamo a consumare meno carne. Per produrre un chilo di manzo in allevamento intensivo serve un’energia sufficiente a tenere accesa 20 giorni una lampadina da 100 watt, in aggiunta a 15.500 litri d’acqua; si immettono inoltre nell’atmosfera 36,4 chili di CO2, la stessa prodotta da un’auto media per percorrere 250 chilometri”.
La carne rimane in ogni caso un alimento riservato al nord industriale del pianeta, mentre un miliardo e mezzo di persone non vi ha accesso. Per nutrire gli animali si usa più del il 50% della produzione agricola planetaria, che da sé sfamerebbe i paesi poveri. Gli allevamenti intensivi inaridiscono il territorio e, con aggressivi pompaggi, provocano cunei salini sulle coste (in Italia la compromissione di falde dolci con acqua di mare interessa 450mila ettari); esalano gas serra, inquinano terra, corsi e bacini con liquami e escrementi pregni di sostanze tossiche.
Ma tornando all’oggetto del business, gli animali, “nel momento in l’uomo dispone della loro esistenza, è arduo parlare di benessere. Speriamo in un passo indietro, numeri contenuti e condizioni migliori”, conclude Enrico Moriconi. “Chiediamo una scelta, non essere più complici di tanto orrore”, aggiungono da Animal Equality, attivisti noti soprattutto per i filmati rivelatori sulla mattanza dei tonni in Sardegna o le fabbriche viventi di foie gras: “ma se informando otteniamo piccoli progressi, è già qualcosa”. Recita una famosa massima di Tolstoj: “Se i macelli avessero le pareti di vetro saremmo tutti vegetariani”. Lui lo diventò nel 1875, sia perché la carne era un alimento inaccessibile ai suoi contadini, sia persuaso dalla possibilità di stare al mondo senza sacrificare nessun altro.
Dalla pista al maneggio fino al macello il cavallo declassato ad hamburger
Carni equine spacciate per bovine. Altre che rivelano tracce di fenilbutazone, un antinfiammatorio pericoloso per l’uomo. Da dove provengono le carni equine che finiscono sulle nostre tavole? Che fine fanno, a fine carriera, gli animali utilizzati nello sport? E perché si rinnovano tanti furti, veri o simulati? Il protocollo dei controlli in Italia è severo. Ma aggirarlo non è così difficile
Lo scandalo internazionale della carne di cavallo spacciata per manzo o altro e ritrovata in un elenco ogni giorno più nutrito di prodotti distribuiti dalle grandi catene alimentari – lasagne, polpette, hamburger – ancora non ha messo davvero in luce la seria ipotesi di una quantità industriale di macellazioni clandestine di animali provenienti dallo sport. Ne sono chiare rivelatrici le tracce di fenilbutazone, un infiammatorio somministrato con enorme frequenza ai cavalli dsa corsa e da diporto, pericolosissimo se ingerito nelle carni e mai utilizzato – se non occasionalmente – con gli equini allevati per il macello.
Non tutti sanno infatti che i cavalli non possono soggiacere ai moderni metodi intensivi di allevamento. Delicati, richiedono una qualche manodopera specializzata e soprattutto spazi aperti dove camminare poiché la loro complessa assimilazione del cibo – hanno un apparato digerente lungo trentasette metri e sono privi della facoltà di rigurgitare: qualsiasi cosa entri nella bocca di un cavallo deve uscire dalla parte opposta dopo un tortuoso percorso – li rende soggetti a coliche fatali e letali guai articolari in caso di immobilità totale, come quella inflitta ad altre specie. Poiché gli orientamenti generali mirano alle alte concentrazioni di capi, sempre meno questi animali vengono allevati per la filiera alimentare, mentre gli stud-book di trotto, galoppo, salto ostacoli, dressage, raining, endurance registrano, solo in Italia, varie centinaia di migliaia di individui. Non è dunque inutile domandarsi da dove provenga la valanga di carne equina che, scopriamo di colpo, invade prodotti assai diffusi incrinando la fiducia dei consumatori.
Dapprima, sono stati ipotizzati traffici con la Romania, anche riguardo soggetti da sport che sarebbero stati venduti all’Est e poi riciclati sulle tavole occidentali. Ma si tratta di una teoria irragionevole, visto che da Romania, Polonia, Ungheria, la stessa Italia già importa ogni anno (sia ufficialmente che clandestinamente) un numero molto rilevante di cavalli e asini. Si tratta di animali caricati sui camion anche una settimana prima di partire, trattati in modo ignobile e spesso trasportati evadendo i controlli alle frontiere. Nei paesi da cui provengono sono tra l’altro conclamate l’AIE-Anemia infettiva equina, contagiosa fra gli equidi, e la trichinosi, pericolosa per l’uomo. Non sarebbe dunque logico, né redditizio, che questi paesi prelevassero da noi, dalla Francia, dall’Inghilterra, animali da portare indietro dopo qualche tempo. Di cavalli che nessuno vuole più mantenere sono infatti colme le scuderie di mezza Europa: che fine fanno i milioni di cavalli utilizzati nel mondo per lo sport quando sono vecchi o infortunati?
“Pochissimi di loro, a fine carriera, vengono pensionati dai proprietari” – spiega Roberto Consumati, cavaliere e preparatore ippico – da noi in particolare, di questi tempi, eccezionali pressioni fiscali che inseriscono i cavalli nel redditometro stanno ispirando movimentazioni irregolari. Fra proprietari e operatori del settore c’è una corsa per liberarsi di pesi ormai insostenibili: gli animali vengono consegnati a non meglio identificati commercianti, si simulano furti, anche quando i loro documenti ne vietino l’uccisione per la carne”. In Italia infatti, sui documenti di ciascun soggetto, vige l’obbligo di indicare la sua destinazione ultima: DPA, ovvero macellabile, non-DPA (su invito di federazioni e anagrafi sportive) significa al contrario non macellabile. Sia per ragioni etiche – non pretendere dallo stesso individuo una vita di lavoro e pure di essere mangiato – sia perché agli animali impiegati nelle differenti discipline sono somministrati farmaci di ogni genere, a partire da infiammatori, cortisonici, antibiotici e antidolorifici, che imporrebbero lunghi e garantiti tempi di sospensione prima dell’abbattimento.
Sono senz’altro in netta minoranza gli animali anziani o malati di cui qualcuno si prenda cura”, conferma Susanna Cottica, giornalista esperta di sport equestri e caporedattore di Cavalli&Campioni. “La maggior parte dei quadrupedi atleti viene progressivamente declassata. Dalle gare di livello il cavallo è venduto dal professionista all’amatore, poi al ragazzino, quindi passa di mano in mano per finire nelle scuole sperdute, nei maneggi che organizzano le passeggiate: di lì, se non prima, se ne perdono le tracce”.
L’eutanasia di un cavallo per ragioni di comodo del proprietario da noi è fuorilegge, costoso poi lo smaltimento della carcassa. Un accanimento fiscale che indica questi animali perlopiù come beni di extralusso, oggi più che mai induce vendite sconsiderate. I cavalli vengono ceduti a pochi spiccioli, abbandonati, regalati, pur di sbarazzarsene. Da sempre tuttavia esistono mercanti che raccolgono i soggetti di minor valore e sottobanco li conducono al mattatoio.
“In Canada per esempio non esiste nemmeno la distinzione fra Dpa e non Dpa: il proprietario firma la dichiarazione ‘no drug’ e può far macellare un cavallo che ha corso la settimana prima, con tutto quel che comporta – spiega Antonio Nardi-Dei da Filicaja, presidente di IHP-Italian horse protection association – ciò nonostante la carne equina canadese gira il pianeta. In Italia, notiamo inquietanti discrepanze. Un cavallo vive 20-30 anni; se confrontiamo il numero degli animali legalmente macellati con la marea di soggetti anziani o scartati dello sport che nessuno vuole più mantenere, avanzano i dubbi”.
Non mancano infine i furti di equini, che nel periodo dell’allarme mucca pazza registrarono da noi un’impennata tale da veder rubare animali persino nelle scuderie dell’Esercito. Causando disperazione fra i proprietari che considerano il cavallo un amico, poco perseguiti dalla giustizia – gli animali sono considerati res, cose, e il loro furto è valutato come quello di una bicicletta – i banditi non si preoccupano di escludere dalle razzie i soggetti d’affezione o da sport, sovente contaminati da farmaci. I cavalli vengono macellati subito, a bordo dei camion o presso locali clandestini. Altrimenti sono immessi di frodo, ancora vivi, nei mattatoi ufficiali. La loro carne, quindi, entra in qualche modo nel circuito regolare, ma, salvo incappare in rari controlli, nessuno potrà distinguerla.
“Solo prodotti che rispettano gli animali”. Anche le aziende contro le sofferenze
Tra le più virtuose la Coop, ma anche Barilla e Calvè. Le scelte delle società per evitare di vendere uova che vengano da galline non allevate a terra
ROMA – Piccole ma significative, le scelte promosse da alcune aziende nella direzione di un maggior rispetto di animali e ambiente, da cui è difficile prescindere nell’ottica di salvaguardare pure gli interessi delle persone. Esistono dunque imprese, anche in Italia, che si muovono verso il compromesso sostenibile e persino interloquiscono costruttivamente con le organizzazioni attive per il benessere animale.
È probabile che, da noi, la palma della virtù vada alla Coop, che da un decennio si impegna nello sforzo di escludere dai propri listini quanto provenga da eccessive e gratuite sofferenze. Anche grazie alla collaborazione con Compassion World Farming, o prendendo in considerazione i filmati-denuncia di Animal Equality, a partire dal 2010 tutte le uova in vendita nei supermercati della catena provengono esclusivamente da allevamenti di galline a terra (anche al chiuso, ma comunque meno costrittivi delle gabbie da batteria) o biologici, e di recente si è stabilito di abolire il foie-gras.
Ma non solo: “I nostri prodotti cosmetici sono garantiti secondo lo Standard Internazionale ‘Non Testato su Animali’; siamo anche la prima catena distributiva italiana ad aver esposto la certificazione Dolphin safe, un progetto creato dall’Earth Island Institute per contrastare il sistema di pesca del tonno messo in pratica dalle flotte che battono il Pacifico Orientale, causa di un alto tasso di mortalità fra i delfini”, dice Claudio Mazzini, referente della Qualità aziendale. “Abbiamo inoltre escluso dal banco del pesce i crostacei tenuti in vita sul ghiaccio, cancellato dalla nostra offerta pellicce o capi realizzati con piume d’oca e d’anatra, visto che le consuete spiumature degli animali ancora vivi sono assai dolorose”.
Anche Calvè, per la sua maionese, utilizza oggi solo uova di galline allevate a terra, e la stessa misura è stata adottata dalla Barilla per le paste fresche all’uovo, i prodotti Mulino Bianco e Pavesi: “Solo in Europa”, specificano dall’azienda,”negli Usa è più difficile. Ma anche sulle altre filiere siamo interessati a sviluppare sostenibilità”. Dalla sua, Ben & Jerry’s è stata acquistata da Unilever “con l’impegno di preservare la social mission immaginata dai fondatori, che si basa sul principio di ricambiare la comunità”. Così il marchio sostiene una campagna promossa da Compassion in World Farming e World Society for the Protection of Animals, che chiede di migliorare gli standard di vita dei 23 milioni di mucche da latte europee. Rifornendosi soprattutto in Olanda, per comporre il famoso gelato l’azienda utilizza solo latte munto in allevamenti dove il trattamento riservato agli animali sia giudicato accettabile.
“Mai più di 8 ore per un tragitto”. La battaglia degli Animals’ Angels
L’associazione fondata da una teologa tedesca soccorre gli animali assetati e maltrattati che spesso muoiono durante il trasporto. Raggiunte più di un milione di firme per abbreviare i tragitti. Con l’adesione anche di quasi quattrocento europarlamentari
ROMA – Mai più di otto ore di viaggio da allevamento a macello per qualsiasi specie animale: è la richiesta di 8hours, campagna internazionale mirata a raggiungere un compromesso fra logiche del mercato e sofferenza. Lanciato dagli Animals’ Angels, associazione fondata nel 1998 in Germania dalla teologa Christa Blanke e ramificata in tutto il mondo, assieme all’europarlamentare danese Dan Jørgensen, il movimento ha raccolto 1.103.428 firme e trovato l’appoggio di 395 eurodeputati.
Ammassati all’interno dei camion, spaventati, assetati, maltrattati, milioni e milioni di animali affrontano attualmente insensati viaggi di giorni, anche settimane, prima di raggiungere i mattatoi. Mucche, cavalli, polli, buoi, maiali, pecore, capre, possono nascere in Polonia e morire in Sicilia. Tanti arrivano a destinazione già cadaveri, e vi sono ben poche garanzie che non vengano macellati lo stesso. Continuamente violate, anche perché impraticabili, le regole che vorrebbero vederli scendere in regolari soste dedicate a riposo e cibo. I pochi controlli e sanzioni si rifanno a una costosa, lenta burocrazia comunitaria.
“D’estate i maiali soffrono molto il caldo. Hanno bisogno di ricevere sufficiente acqua, ma nei camion le tettarelle sono istallate solo su un lato, e gli animali che si trovano su quello opposto non riescono a raggiungerle”, spiega Christine Hafner, in Italia a capo del settore investigativo di Animals’ Angels, la cui missione è proprio assistere gli animali nell’ultimo tratto, intercettando i carichi illegali, abbeverando chi è allo stremo, pretendendo pause e controllando la regolarità dei mattatoi. “Non tutti poi capiscono come funzioni una tettarella, non ci sono abituati, e spesso l’impianto dell’acqua non viene nemmeno acceso oppure il serbatoio è vuoto. Per i cavalli è molto faticoso mantenere l’equilibrio durante il viaggio. Vitellini e agnelli non svezzati sulla lunga distanza avrebbero diritto a ricevere latte tiepido per un’ora ogni nove di cammino; peccato che gli impianti, già mal funzionanti, siano adatti solo all’acqua. Per rispettare l’attuale legge, il conducente allora dovrebbe entrare nel camion e far poppare a mano, uno ad uno, i 200 vitellini o i 700 agnellini a bordo”. Ovviamente impossibile, mentre la soglia della pietà scende ancora verso gli animali che valgono poco, come polli, galline, regolarmente stipati con zampe e ali fratturate o incastrate fra le gabbie. Anche gli animali a fine sfruttamento, come scrofe o mucche da latte, sono costretti a questi infernali viaggi, benché il loro stato sia molto compromesso. Sfiniti, malati, non si riserva loro neppure l’abbattimento sul posto, in azienda. “Tempo fa abbiamo fatto una richiesta circoscritta alla Lombardia per conoscere il numero dei bovini giunti morti ai macelli regionali: 1.994 nel 2008,” aggiunge Christine.
“Siamo in attesa di una proposta legislativa da parte della Commissione europea”, dice Andrea Zanoni, vice presidente dell’Intergruppo Benessere Animale al Parlamento Europeo. Ora sta infatti a Tonio Borg, commissario per salute e politica dei consumatori – succeduto al dimissionario John Dalli, che s’impegnò a modificare la normativa per poi rimangiarsi la parola – prendere atto dei numerosi pareri positivi verso un ragionevole ridimensionamento delle tratte. Otto ore consentono comunque un tragitto di 500 km e tale limitazione consentirebbe di vigilare assai meglio sulla provenienza degli animali (quanti dichiarano prodotto autoctono la carne di specie importate?).
Tuttavia, l’eurocommissario in carica sembra opporre resistenza passiva, sostenendo che bisogna concentrarsi sull’applicazione dell’attuale normativa prima di modificarla. “Le pressioni delle lobby degli allevatori sono molto forti, a causa di esse anche parlamentari di solito attenti alle questioni animaliste possono accettare compromessi al ribasso. Ma noi stiamo dimostrando – osserva Adolfo Sansolini, coordinatore internazionale di 8hours – come troppi aspetti dell’attuale legge siano inattuabili, mentre il trasporto su lunga distanza comporta in ogni caso seri problemi agli animali”.
Repubblica – 18 marzo 2013