L’ultimo governo Berlusconi ha varato una serie di leggi per salvare i conti dell’Istituto vanificando le cause (anche già vinte) di migliaia di pensionati. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha bocciato a più riprese le norme, ma la bilancia continua a pendere a sfavore di chi attende i risarcimenti. La testimonianza eloquente di uno degli avvocati del lavoro tra i più impegnati su questo fronte: per timore di ripercussioni ha preferito rimanere anonimo
di DANIELE AUTIERI, LUCA FERRARI e PAOLA CIPRIANI
C’è una guerra silenziosa che il cittadino combatte ogni giorno contro l’Inps. Una guerra a colpi di cause e di ricorsi. Una guerra che si consuma nelle aule dei tribunali. E che riguarda il diritto ala pensione e alle misure assistenziali che l’Istituto è chiamato ad assicurare. Nel 2012 la querelle giudiziaria si è conclusa con 172mila sentenze a favore dell’Inps e 88mila contro. In quattro anni (dal 2008 al 2012) il numero delle sentenze che hanno dato ragione ai cittadini è crollato di circa il 60%, da 143mila a 88mila. Cosa è successo in questo periodo? Chi ha cambiato le regole in corsa, mettendo le mani nelle tasche degli italiani?
RE Inchieste ha ricostruito gli interventi legislativi che hanno contribuito a sbilanciare i rapporti di forza in favore dell’Inps. E ha raccolto la testimonianza di uno degli avvocati più impegnati nella tutela dei diritti dei cittadini che ha chiesto di rimanere anonimo per non mettere a rischio gli interessi dei suoi assistiti. Il risultato è una storia per molti versi inedita, che tocca i destini di centinaia di migliaia di italiani, e almeno in parte spiega perché vincere in tribunale contro l’Inps sia diventato così difficile.
Luglio 2011. L’Italia come la Grecia: lo spettro del default agita il Paese, il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è tirato per la giacchetta dall’Unione europea affinché vari una serie di provvedimenti per evitare il peggio. Il 6 luglio il governo approva d’urgenza il decreto legge 98, ultimo tentativo del Cavaliere prima della lenta agonia politica che lo porterà alle dimissioni di novembre. I conti dello Stato non tornano. E tutti sanno che uno dei capitoli da toccare è quello della spesa pensionistica. Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps nominato nel 2008 (e costretto a lasciare lo scorso febbraio dopo lo scandalo delle poltrone accumulate), ne ha discusso più volte con il sottosegretario Gianni Letta ribadendo la necessità di calmierare le spese. Così, nel decreto approvato in tempi record spuntano alcuni articoli che mutano radicalmente i rapporti di forza tra l’Inps e i pensionati italiani. Tra questi, due commi dell’articolo 38 abbreviano i termini di decadenza per richiedere il pagamento di prestazioni non corrisposte o erroneamente calcolate. Norme di interpretazione autentica, che non si limitano a cambiare la legge, ma intervengono sui processi in corso, facendo cadere la ghigliottina della decadenza anche su chi ha già vinto il primo grado di giudizio.
Davide contro Golia
Le misure inserite nella “manovra di luglio” sono solo l’ultimo di una lunga serie di interventi legislativi sul tema delle pensioni che hanno segnato il IV governo Berlusconi. Interventi che hanno avuto un unico obiettivo: ridurre le possibilità di ricorso giudiziario contro l’Inps e dare all’Istituto più libertà d’azione nei confronti dei cittadini. Il regalo più grande arriva con il decreto legge 78 del 2010, poi convertito nella legge 122, che contiene una manciata di articoli dall’effetto dirompente. Il comma 1 dell’articolo 12 riconosce all’Inps la possibilità di pagare le pensioni ai lavoratori dipendenti dopo 12 mesi dalla maturazione del diritto, e ai lavoratori autonomi dopo ben 18 mesi. Il comma 10 dell’articolo 30 riconosce all’Inps il potere di continuare a riscuotere denaro dai cittadini nonostante sulle somme pretese ci siano ricorsi amministrativi pendenti. O ancora l’articolo 12septies e undecies rende onerosa la ricongiunzione sotto l’Inps di periodi contributivi maturati presso diversi enti previdenziali. Molte di queste leggi intervengono su processi in corso e concorrono a mutare l’indirizzo della giurisprudenza a danno dei lavoratori.
Tra il 2011 e il 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo emette quattro sentenze contro il nostro Paese. I ricorsi “Maggio e altri contro Italia”, “Agrati e altri contro Italia”, “Arras e altri contro Italia”, “De Rosa e altri contro Italia” vengono accolti perché la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce come illegittime le norme che incidono retroattivamente su cause in corso. La risposta dell’Istituzione comunitaria è netta: lo Stato non può intervenire con leggi ad hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi che lo vedono coinvolto. Una prassi che si è ripetuta su molte delle leggi che hanno riscritto gli equilibri tra l’Inps e i lavoratori.
Sulla partita della decadenza si gioca una grossa fetta del contenzioso aperto contro l’Inps. Un passaggio chiave che ha portato anche la Corte dei Conti a pronunciarsi nel novembre scorso con queste parole: “Sebbene le procedure non consentano di avere informazioni esaustive sulla durata delle singole fasi del procedimento, va sottolineata l’esigenza – anche al fine di ridurre gli oneri per interessi – di ricondurre il più rapidamente possibile il periodo dell’intero iter entro la scadenza prescritta, intervenendo sui tempi di esclusiva competenza dell’Istituto”. Dal 2003 ad oggi il legislatore si è espresso più volte per ridurre i termini di decadenza in favore dell’Inps. È stato introdotto il termine di 6 mesi per presentare un ricorso giudiziario per l’invalidità civile; 3 anni per le domande di prestazioni previdenziali in genere; e 5 anni per prestazioni già riconosciute dall’Inps ma non ancora pagate. Superati questi termini un cittadino non può più far valere i propri diritti. Nella vicenda hanno fatto scuola le norme già citate e inserite nella manovra Berlusconi del luglio 2011. Su queste leggi il Tribunale di Roma ha sollevato una questione di legittimità alla Corte Costituzionale.
Dal 2002 al 2007 l’Inps viene ripetutamente condannato a pagare le differenze sulle indennità di buonuscita riservate ad alcune categorie di ex-dipendenti. Piccole somme, moltiplicate però per molte persone. Un diritto dei pensionati riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione che nel 2007 interviene nel dibattito con diverse sentenze contrarie all’Istituto. Anche le Sezioni Unite della Corte, presiedute allora dal magistrato Vincenzo Carbone (l’ex primo presidente della Corte di Cassazione che il 18 novembre del 2013 viene rinviato a giudizio con l’accusa di corruzione per aver fatto parte della P3), si pronunciano a favore dei pensionati. Nel 2008 però qualcosa cambia. Una rotella del meccanismo comincia a girare in senso opposto e – con una nuova interpretazione della legge – le Sezioni Unite ribaltano le stesse sentenze che, fino a un anno prima, avevano sottoscritto. Addirittura la Cassazione impugna le sentenze dei tribunali nonostante l’Inps, di fronte all’evidenza della giurisprudenza, avesse in molti casi accettato di desistere dalle sue contestazioni. “Di fronte a questo repentino cambio di interpretazione della legge – dichiara oggi l’avvocato cassazionista specializzato nelle cause di lavoro che ha chiesto di rimanere anonimo – abbiamo fatto richiesta di revocazione (l’ultima forma di ricorso possibile) per palese errore di fatto, ma la nostra domanda è stata dichiarata manifestamente infondata”. In molti casi, anche la Cassazione ha le mani legate e non può far altro che registrare i cambiamenti imposti dal legislatore. Nel 2011, con l’approvazione delle norme di interpretazione autentica volute dal governo Berlusconi, la posizione della Corte si fa necessariamente più rigida. Senza considerare la potenziale incostituzionalità di queste norme, e la posizione in merito già presa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Cassazione le accoglie e cambia orientamento rispetto al passato, bloccando una parte consistente del contenzioso contro l’Inps.
Sono diverse le cause istruite negli ultimi mesi contro l’Inps per il mancato riconoscimento delle pensioni di reversibilità alle vedove slave. La storia è tanto semplice quanto curiosa: in forza di accordi internazionali l’Inps riconosce le pensioni di reversibilità alle vedove straniere di chi ha versato contributi all’Istituto. Una regola che tuttavia sembra non valere per le donne di nazionalità slovena e croata. “Tutte le domande che arrivano da quel fronte – spiega l’avvocato del lavoro Rosa Maffei – vengono puntualmente respinte. Nel farlo l’Inps si appella all’interpretazione di una vecchia legge che modificherebbe questi rapporti, ma in realtà si tratta di un appiglio pretestuoso che è stato già smontato in numerose cause”. La conseguenza è che l’Inps perde le cause contro le vedove slave, ma non cambia il suo orientamento e continua a respingere le legittime domande di pensione, preferendo il rischio del contenzioso legale alla certezza del pagamento.
Nella battaglia legale tra l’Inps e i cittadini, un nuovo fronte rischia di aprirsi nei prossimi mesi e riguarda l’adeguamento al costo della vita delle prestazioni temporanee a sostegno del reddito. Un obbligo che non sempre l’Inps rispetta e che – denuncia l’avvocato Maffei – non sta rispettando nei versamenti relativi alle indennità di mobilità, il sostegno al reddito che anticipa il licenziamento. “La legge – commenta il legale – dice chiaramente che questa prestazione va adeguata al costo della vita, ma l’Inps, per il momento, si mostra inadempiente. È evidente che questo capitolo rischia di diventare una bomba in termini giudiziari e, quando tutti cominceranno a rivendicare il loro diritto, promette di trasformarsi in un contenzioso seriale”. Allora tornerà ad aprirsi la strada dei tribunali. E forse, di fronte alle ripetute vittorie dei cittadini, qualcuno penserà che sia arrivato il momento di approvare una nuova legge. Una norma capace di “regolamentare la materia” e – soprattutto – preservare le casse dell’Istituto.
Repubblica – 9 aprile 2014