di Domenico Comegna. Nulla di buono per gli aspiranti pensionati che nel 2016 avranno un assegno Inps più leggero di quello intascato dai colleghi che hanno mollato il posto di lavoro nel 2015 . E sì, perché dal 1° gennaio sono entrati in vigore i nuovi coefficienti di trasformazione, i moltiplicatori che servono per calcolare l’importo della pensione determinata con il metodo contributivo. Rispetto ai valori utilizzati sino al 31 dicembre 2015, i nuovi coefficienti fanno registrare una riduzione che, a seconda dell’età di accesso alla pensione, varia da un minimo dell’1,35% a un massimo del 2,50%. Un calo tutto sommato modesto, considerato che rispetto a quelli originari della riforma Dini del 1995, sono calati complessivamente di oltre il 12% ed è questo calo, evidentemente, che produce il taglio delle rendite. Il parametro di calcolo contributivo della riforma Dini per un 65enne oggi corrisponde a quello di chi ne festeggia 69
Revisione periodica
La riforma Dini introdusse il metodo contributivo per garantire la sostenibilità del sistema ed affermare un principio di equità. Infatti, attraverso i coefficienti di trasformazione si realizza l’equivalenza attuariale fra i contributi versati e le prestazioni ricevute. La riforma del 1995 consapevole che le dinamiche della vita hanno una incidenza significativa solo nel lungo periodo, aveva stabilito che la revisione dei coefficienti di trasformazione fosse decennale. La legge Prodi del 2007 ridusse il periodo da dieci anni a tre; la riforma Fornero da tre a due. Dal 1° gennaio dunque sono entrati in funzione i nuovi coefficienti utilizzati per il calcolo contributivo, cui, a partire dal 2012, sono soggetti tutti i lavoratori, compresi coloro che potevano far valere 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, i quali continueranno comunque a beneficiare del più favorevole calcolo retributivo per la quota di anzianità maturata sino al 31 dicembre 2011. La revisione dei coefficienti, legati all’età alla quale si va in pensione (sono più bassi se si esce dal lavoro prima e più alti se si esce dopo), è stata prevista a fronte dell’allungamento della vita media. Ipotizzando che, se si riceve l’assegno per più tempo, a parità di età di uscita dal lavoro, l’importo, legato ai contributi versati nella propria vita lavorativa, deve essere più basso. Confrontando i coefficienti previsti nel 1995 con quelli di quest’anno si nota che il valore della legge Dini per i 65 anni (6,136%) lo si ritrova a 69 anni (6,135%). Ciò significa che l’andamento demografico negli ultimi 20 anni ha comportato un aumento della speranza di vita di quattro anni. E’ come dire che nei confronti di Tizio che è andato in pensione nel 2009, Caio, a parità di condizioni, per ottenere la stessa rendita oggi deve lavorare quattro anni in più.
Effetti
Va comunque precisato che per chi è soggetto al sistema misto (l’attuale maggioranza dei pensionandi), l’impatto sull’importo di pensione è comunque contenuto. Facciamo un esempio pratico che ci aiuta a capire meglio. Ipotizziamo il caso di un dipendente che lo scorso novembre ha compiuto i previsti 66 anni e 3 mesi di età e invece di chiedere la pensione dal 1° dicembre è rimasto in servizio sino alla fine dell’anno. Poniamo che questo signore dal 2012 (da quando è scattato il calcolo contributivo per tutti) al 2015, abbia accumulato circa 150 mila euro. La sua quota contributiva sarebbe stata di 8.513 euro se cominciava a percepirla l’anno scorso. Dal momento che ha chiesto la pensione a dicembre (decorrenza gennaio 2016), e quindi continuando a versare contributi, la stessa quota risulta pari a 8.331 euro, 182 euro in meno, una decurtazione di 14 euro al mese (per tredici mensilità). E ciò, con l’aria che tira (indicizzazione fortemente ridotta rispetto all’inflazione), non è proprio poco.
DOMENICO COMEGNA – Corriere Economia – 8 febbraio 2016