di Edoardo Narduzzi. Il budget annuo della sanità italiana ha raggiunto la cifra di 108 miliardi. In termini percentuali sul pil il valore del costo della sanità del Belpaese è ancora inferiore a quello di Francia o Germania e molto più contenuto di quello americano.
Ma è altrettanto vero che diverse sono la produttività e la qualità media dei servizi erogati e che operare comparazioni transnazionali in un settore a elevata intensità di conoscenza, come la sanità indubitabilmente è, non è per nulla facile. La sanità è infatti un tipico diritto facile da creare per legge ma molto difficile da finanziare nel concreto. Farlo in disavanzo, come da decenni ad esempio accade in molte regioni del Centrosud italiane, è possibile, scaricando il costo sulle generazioni future, ma non molto conveniente. Prima o poi la sostenibilità del servizio verrà meno e con essa la possibilità di erogarlo.
La sanità è oggi un enorme monopolio pubblico dal lato dell’offerta. I privati possono lavorare soltanto se autorizzati altrimenti i servizi sono erogati dal pubblico. Il risultato è una mostruosità organizzativa che pensa di poter gestire, nel mondo in tempo reale contemporaneo nel quale i consumatori sono sempre più potenti nel decidere cosa, quando e come comprare, secondo logiche a metà strada tra la cultura del Tar e quella sindacale ben 108 miliardi di spesa o di investimenti annui. Il modello di aziendalizzazione del pubblico non è più il compromesso migliore perché comunque le Asl restano soggette al diritto amministrativo e non a quello privato.
Ma il monopolio pubblico in sanità crea un ulteriore problema per un settore produttivo che rappresenta circa il 7% della ricchezza annua prodotta ogni anno dall’Italia. I monopolisti innovano lentamente, perdono occasioni di crescita e di sviluppo che altrimenti la libera competizione tra privati produrrebbe meglio. Anche per la sanità, un comparto nel quale l’innovazione tecnologica procede oggi a passo spedito, più concorrenza e meno monopolio si tradurrebbero in più pil e maggiore occupazione. Come pensare che una start up innovativa possa mai riuscire a vendere una sua brillante tecnologia se chi compra sanità è un burocrate, molto spesso neppure trasparente o sensibile al rispetto della legge come moltissimi casi certificano? Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la pressione fiscale italiana segnala la non sostenibilità di una spesa sanitaria a pioggia (l’Irap imposta di scopo per la sanità copre circa 35 mld dei 108 spesi), i tempi sarebbero più che maturi per una spending review che ridisegni come e per chi lo Stato spende le imposte in sanità. Invece ogni volta che si prova a parlare di tagli alla sanità il coro dei partiti è unanime per bloccare tutto.
ItaliaOggi – 31 ottobre 2013