Aveva ragione Matteo Renzi a allungare il passo sull’approvazione dei due decreti attuativi del Jobs act, la riforma del lavoro. Il deragliamento dell’alleato di governo Ncd, seguito alla decisione del premier di non condividere la candidatura senza alternative a capo dello Stato di Sergio Mattarella, allunga qualche ombra sul percorso del programma delle riforme in materia economica. A partire appunto dal Jobs act, che pure è prossimo al traguardo: i due pareri che le commissioni parlamentari devono esprimere sono obbligatori ma non vincolanti per il governo nel momento in cui dovrà dare il placet definitivo.
Quali sono i rischi? «Nessun pregiudizio nei confronti di Sergio Mattarella – ha dichiarato il senatore ncd, Maurizio Sacconi, su Twitter dopo l’elezione – ma il cinismo di ridare peso alle sinistre nel Pd e fuori di esso uccide le riforme, dal lavoro al fisco passando per la giustizia». Sacconi per protesta contro il metodo Renzi, ma soprattutto in polemica col suo stesso partito che ha deciso ugualmente di votare il candidato Mattarella, si è dimesso da capogruppo di Area popolare (Ncd/Udc) al Senato senza, per ora, lasciare il posto di presidente della commissione Lavoro della stessa assemblea, dove si stanno discutendo i pareri sui decreti attuativi del Jobs act. Nelle sue parole c’è il timore che il «metodo Quirinale» adoperato da Renzi, cioè la preventiva assunzione di una linea condivisa nel suo partito prima di (o senza) acquisire la posizione dell’alleato, ne ammorbidisca la linea riformista.
Il Jobs act è il primo banco di prova: entro il 12 febbraio le commissioni Lavoro, presiedute da Sacconi al Senato e da Cesare Damiano (sinistra Pd) alla Camera, dovranno esprimere un parere. La linea di Sacconi è quella di prevedere che anche nei pochi casi di licenziamento disciplinare in cui il giudice può disporre il reintegro (licenziamento insussistente) l’azienda possa imporre l’indennizzo. Damiano spinge nel verso opposto, cioè per eliminare le nuove regole per i licenziamenti collettivi, rafforzare l’indennizzo minimo e ripristinare il criterio della proporzionalità fra infrazione commessa e licenziamento disciplinare.
Finora la sensazione era che le opposte richieste si sarebbero annullate a vicenda, ma ora la sinistra del Pd rivendica la propria prevalenza sugli alleati di governo e reclama l’applicazione del «metodo Quirinale» anche alle riforme, come il Jobs act. Lo dice chiaramente Damiano: «Non vogliamo fare battaglie ideologiche, chiediamo solo al premier di confrontarsi all’interno del Pd sul merito del provvedimento». Un «no» di Renzi sarebbe la prima sconfessione della ritrovata unità del partito, un «sì» sarebbe l’ennesimo (forse letale) colpo all’alleanza coi moderati.
Ma questo è solo il caso più eclatante. Il 20 febbraio approderanno in Consiglio dei ministri i decreti attuativi della delega fiscale che avranno tempo circa un mese per affrontare il passaggio parlamentare. Il governo non vorrebbe prorogare i termini della delega per non venir meno al cronoprogramma monitorato dall’Ue. Il viceministro all’Economia, Luigi Casero (Ncd), prima dell’elezione al Quirinale era certo che la preventiva condivisione con il Parlamento dei decreti ne avrebbe abbreviato l’iter. Ma il clima è cambiato e il percorso si è riempito di ostacoli e c’è ancora da sciogliere il nodo sulla norma che aveva introdotto la soglia del 3% per i reati di frode fiscale. Per non parlare della delega della Pubblica amministrazione, che è ancora in commissione. O, peggio ancora, del decreto che contiene la riforma delle banche popolari, accolto da polemiche a destra e sinistra.
Antonella Baccaro – Il Corriere della Sera – 1 febbraio 2015