La Commissione bicamerale Ecomafie sta indagando sulla contaminazione da Pfas nelle acque di 53 comuni. Il rapporto sarà pubblicato tra un paio di settimane e dodici delle 430 pagine della relazione sullo smaltimento del ciclo dei rifiuti in Veneto saranno dedicate all’inquinamento delle falde attribuibili agli scarichi della Miteni.
Visti gli sviluppi delle ultime settimane però la pubblicazione potrebbe slittare perché il presidente Alessandro Bratti vuole approfondire e ha chiesto aggiornamenti ad Arpav, alla Regione e alle Asl per poter includere dati aggiornati nelle conclusioni e dipanare una delle più ingarbugliate vicende di inquinamento del Nord Italia. «La vicenda è stata sottovalutata e bisogna capire perché ci si è svegliati così tardi, a tre anni dall’allarme lanciato dall’Arpav e dai comitati – riflette Bratti, presidente Pd della commissione bicamerale – Le prime denunce dell’Arpav sono del giugno 2013 e l’audizione del direttore nell’ottobre 2014 conferma la presenza di una grave inquinamento. Tre anni fa l’agenzia ambientale veneta segnalò alle procure di Vicenza, Verona e Padova la situazione ma le denunce furono archiviate destando non poche perplessità ma la motivazione fu che la normativa non aveva individuato i limiti massimi di concentrazione nelle acque. Adesso acquisiremo gli ultimi dati e le indagini epidemiologiche perché la questione merita un approfondimento».
La relazione parlamentare parte dall’inquinamento della Valle di Chiampo e dalle risultanze dei rilievi del 2013 nelle acque di Trissino, a Vicenza. «Il Ministero della Sanità a maggio 2013 aveva fornito ad Arpav Veneto rassicurazioni su mancanza rischio immediato per la popolazione, pur suggerendo trattamento per le acque», dice Bratti. Allora furono installati filtri meccanici in quattro depuratori dell’area contaminata da Vicenza a Verona a Padova e i dati di dicembre 2015 parlano di un drastico abbattimento delle sostanze perfluoro-alchiliche. Davvero il Ministero della Sanità disse che non c’erano rischi per la salute? L’Arpav fa una ricostruzione puntuale. «La segnalazione sulla concentrazione dei pfas ci arrivò a metà maggio 2013 dal ministero della Salute- riferisce il commissario Alessandro Benassi, capo del Dipartimento Ambiente della Regione – Solo allora venimmo a sapere che dal 2006 al 2013 il dicastero dell’ Ambiente e il Cnr avevano condotto una ricerca ad hoc lungo la valle del Po, del Tevere in Veneto ed Emilia nell’ambito del progetto europeo Perforce e che erano stati trovati valori significativi». La classificazione cancerogena dei Pfas è di tipo «B1», la stessa del caffè. La letteratura parla di un limite massimo di 5.000 nanogrammi per litro e arriva perlopiù dalla Germania visto che l’Italia non ha mai, prima d’ora, messo un tetto massimo alla concentrazione di queste sostanze. Neanche dopo che la multinazionale Dupont, produttrice del Teflon che rende le padelle antiaderenti, nel 2001 fu costretta a versare risarcimenti per 350 milioni di dollari da destinare alla ricerca per aver sversato nel fiume Ohio ingenti quantità di Pfas. E allora come mai per sette anni Cnr e ministero dell’Ambiente hanno effettuato ricerche senza informare le Regioni interessate, comunicando i risultati solo a cose fatte? È il nocciolo politico della questione ed è il motivo della polemica di queste ore tra il governatore Luca Zaia e la sottosegretaria Barbara Degani. Al momento non c’è una risposta. «E’ questione che andrà in collo ai ministeri dell’Ambiente e della Sanità», annuncia Bratti. «A metà maggio 2013 il ministero della Salute comunicò ai servizi sanitari regionali la presenza di queste sostanze e a fine maggio dello stesso anno il ministero dell’Ambiente scrisse alla Provincia di Vicenza e all’Arpav – fa mente locale Benassi – E noi facemmo mettere i filtri meccanici in quattro acquedotti. In mancanza di una legge che fissasse i limiti, abbiamo fatto il massimo possibile. E fummo noi tecnici ad informare la politica di questa ricerca e delle precauzioni che avevamo assunto. I politici non ne sapevano nulla. La genesi di una ricerca svolta senza comunicazione e non accompagnata da raccomandazioni sulla buona prassi è un nodo scientifico che ancora non ci spieghiamo – conclude – Noi, intanto, abbiamo adottato le precauzioni più restrittive. L’importante è che adesso non scatti la psicosi».
Monica Zicchiero – Il Corriere del Veneto – 29 aprile 2016