Il Sole 24 Ore, Giampiero Falasca. La Corte: diritto alla reintegrazione se il comportamento causa di risoluzione è realmente avvenuto, ma è punito dal contratto con una sanzione diversa dal licenziamento
La Corte costituzionale prosegue nel suo lavoro di demolizione del Jobs act, con due sentenze, depositate il 16 luglio, che cancellano pezzi importanti della riforma del 2015.
Con la prima pronuncia (128/2024), viene reintrodotta la sanzione della reintegrazione sul posto di lavoro (seppure nella forma attenuata, quella che prevede un tetto massimo all’importo dell’indennità risarcitoria che si accompagna alla ripresa del posto di lavoro) per i cosiddetti licenziamenti economici. Con la seconda (129/2024), la Corte reinterpreta le norme vigenti, prevedendo che la reintegra si applica anche ai licenziamenti disciplinari dichiarati invalidi perché il comportamento contestato al dipendente è sanzionato dal contratto collettivo con una sanzione conservativa. Un doppio intervento che assottiglia ancora di più – dopo quelli degli anni passati, altrettanto chirurgici – le residue differenze tra l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il contratto a tutele crescenti, restituendo alla reintegrazione sul posto di lavoro un ruolo centrale, e quasi esclusivo, nel regime sanzionatorio dei licenziamenti.
Con la sentenza 128/2024 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015 (la normativa che regola il contratto a tutele crescenti), nella parte in cui non prevede che la reintegrazione sul posto di lavoro si applichi anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. Facciamo un esempio concreto: un’azienda dichiara la soppressione di un posto di lavoro e, come conseguenza di questa scelta organizzativa, licenzia il dipendente; se in giudizio viene provata la falsità di quanto dichiarato dall’azienda, perché la posizione non è stata realmente soppressa, il dipendente – secondo la nuova disciplina conseguente alla sentenza della Corte – ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro (non si limita a ottenere un semplice risarcimento, come era previsto dalla disciplina dichiarata incostituzionale).
La Corte arriva a questa conclusione facendo il paragone tra la disciplina del licenziamento economico e quella del licenziamento disciplinare: se in quest’ultima, come previsto dal Jobs act, l’inesistenza del “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro nel procedimento disciplinare, ha come conseguenza la reintegra, non è possibile, secondo la Consulta,che nel licenziamento economico l’inesistenza del “fatto materiale” produca una sanzione diversa e meno grave di quella. Anche perché, prosegue la Corte costituzionale, in tale contesto il datore di lavoro, per espellere un dipendente dall’azienda, potrebbe scegliere il regime sanzionatorio meno pesante, semplicemente imboccando la strada del licenziamento economico, anche in assenza di valide motivazioni che lo possano sostenere.
La Corte fa salva dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale solo la violazione del cosiddetto obbligo di repêchage: se il licenziamento è fondato su un motivo realmente esistente, ma il datore di lavoro ha omesso di valutare posizioni alternative da offrire al dipendente, si può continuare a riconoscere la sola tutela indennitaria, senza applicare la reintegrazione a questa ipotesi.
Con la sentenza 129/2024, la Corte prevede il diritto del dipendente a essere reintegrato sul posto di lavoro nei casi in cui il comportamento per cui è stato licenziato è realmente avvenuto, ma è punito dal contratto collettivo con una sanzione diversa dal licenziamento. Anche qui ci aiuta un esempio. Il dipendente si assenta dal lavoro per malattia, ma non viene trovato in casa alle visite di controllo; il datore lo licenzia, ma il contratto collettivo prevede per questa condotta, in maniera specifica e puntuale, solo la sospensione per un giorno. In un caso del genere, applicando la versione originaria del Jobs act sarebbe spettato il semplice diritto al risarcimento del danno, mentre la Consulta stabilisce una diversa interpretazione: il dipendente ha diritto alla reintegra sul posto di lavoro.
Un doppio intervento, quello della Corte costituzionale, che solleva diversi interrogativi: se negli anni passati alcune decisioni sul Jobs act avevano fatto leva su parametri costituzionali dotati di un certo livello di oggettività, le sentenze 128 e 129 si fondano su criteri molto meno certi e indiscutibili. Un’entrata a gamba tesa nelle scelte del legislatore che solleva più di qualche dubbio, ma che deve essere colta come spunto per rimettere mano a una disciplina che, tra interventi della giurisprudenza e modifiche legislative, è sempre più una giungla di regole diverse tra loro.