Le ultime obiezioni sono arrivate venerdì scorso, sul decreto che prova a semplificare le autorizzazioni della Pa alle imprese e prevede il dimezzamento dei tempi con la possibilità per lo Stato di “commissariare” le regioni e gli enti locali ritardatari; ma anche sulla copia italiana del Freedom of Information Act, sul nuovo Codice dell’amministrazione digitale, sulle semplificazioni per la Scia e sulla riforma della Conferenza dei servizi i passaggi al Consiglio di Stato dei decreti attuativi della riforma Madia si sono rivelati tutt’altro che lisci, e lo stesso è accaduto alle regole anti-furbetti. Ottima la strategia, hanno detto praticamente in tutte le occasioni i giudici amministrativi, ma se i decreti attuativi non funzionano il rischio di peggiorare ulteriormente la situazione è alto.
La matita rossa dei giudici amministrativi si è trovata spesso a sottolineare le regole chiamate a tradurre in pratica le parole d’ordine della riforma, cioè «trasparenza», «innovazione» e «semplificazione». Il problema è apparso chiaro fin dal primo parere, quello che a metà febbraio si è concentrato sul decreto trasparenza. Il provvedimento, intitolato allo scopo ambizioso di introdurre anche da noi il passaggio «dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere» tipico della trasparenza totale di modello anglosassone, prima apre le porte dell’accesso agli atti anche a chi non è titolare di un «interesse specifico» e poi rimette in gioco un’antichissima forma di silenzio-rifiuto, in base al quale la mancata risposta in 30 giorni si traduce in un rigetto automatico della richiesta, senza obbligo di motivazione e senza sanzioni per i responsabili. In questo modo, chiosa il Consiglio di Stato, «si verificherebbe il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la Pa non gli accorda l’accesso richiesto». Il tutto senza contare l’obbligo, per i cittadini che chiedono i dati, di rimborsare i costi sostenuti dalla Pa per fornirli: problema che secondo i giudici potrebbe essere eliminato prevedendo una richiesta solo telematica, perché senza costi reali non ci sarebbe neanche l’esigenza di finanziarli.
Nemmeno per il provvedimento sulla digitalizzazione, del resto, il passaggio sui tavoli dei giudici amministrativi si è rivelato un trionfo. Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale ipotizzato dalla riforma, prima di tutto, con uno slancio ottimistico attribuisce valore probatorio a tutti i documenti firmati elettronicamente ma, osserva il Consiglio di Stato, oggi la firma elettronica può essere tante cose, a partire dalla «semplice password» che non garantisce davvero sull’origine del documento. Accanto a un balzo in avanti, però, ce n’è uno indietro, che imporrebbe di togliere i nomi degli interessati da tutte le sentenze prima della pubblicazione, obbligo oggi previsto solo nei casi più “sensibili”: questa «anonimizzazione totale», che si affianca curiosamente alla «trasparenza totale» che ispira la riforma, inonderebbe le cancellerie di un nuovo lavoro, rallentando ulteriormente il core business della giustizia. Per questa ragione il Consiglio di Stato ha chiesto di togliere dal testo la norma, oltre che di ripensare l’obbligo di un capitale da almeno 5 milioni imposto agli operatori che si candidano a gestire l’identità digitale e la posta certificata: questa soglia, che ha scatenato la rivolta delle aziende interessate, è già stata giudicata «sproporzionata» dal Tar Lazio e il Consiglio di Stato chiede di motivarla meglio o di ripensarla.
In tutti questi casi, i giudici hanno sottolineato la distanza fra gli obiettivi della riforma, condivisi e considerati «strategici» dal Consiglio di Stato, e la loro traduzione pratica nei provvedimenti attuativi: cioè proprio nella fase cruciale per passare dalle parole ai fatti.
G.Tr. – Il Sole 24 Ore – 18 aprile 2016