«Vivevano tutti lì, su quell’isola in Australia. Siamo tornati a cercarli l’anno scorso e non c’era più nessuno». I piccoli roditori della specie Melomys rubicola si sono estinti. «Ed è la prima volta che accade a causa del cambiamento climatico».
Carlo Rondinini insegna a Roma alla Sapienza, ma è anche il coordinatore della sezione mammiferi della “Red List” (l’elenco delle specie a rischio) dell’International Union for the Conservation of Nature. Oggi è a Honolulu per il congresso dell’associazione e per la revisione della Lista Rossa. Da qui sono arrivate notizie buone (il panda è uscito dalla zona pericolo: ora è solo “vulnerabile”) e cattive (anche il gorilla orientale è in “pericolo critico”: diventano così 4 su 6 le specie di grandi primati a un passo dall’estinzione). Ma a colpire gli scienziati riuniti alle Hawaii è stato anche il primo effetto concreto del clima che cambia: una specie spazzata via dalla Terra a causa delle onde sempre più alte e del riscaldamento. Bramble Cay, l’isola in cui viveva il piccolo Melomys, si trova a nord-est dell’Australia, in mezzo alla barriera corallina. Una foto del 2009 la mostra verde degli arbusti fra i quali i topolini si rintanavano e dei quali si nutrivano. Due anni più tardi c’è solo sabbia. Bramble Cay, che raggiunge un’altitudine di tre metri, nel 1998 aveva un’area di 4 ettari. L’innalzamento dei mari l’ha “ristretta” a 2,5.
I ricercatori del dipartimento ambientale della Queensland University hanno cercato il loro topolino fino a settembre 2015 con 900 trappole, 60 macchine fotografiche notturne e una ricognizione a piedi. Nessuna traccia. L’ultimo a vedere il Melomys rubicola è stato un cacciatore di tartarughe nel 2009. Eppure quando la nave Hms Bramble arrivò qui, nel 1845, i roditori erano talmente numerosi che i marinai si divertivano a centrarli con arco e frecce. «Siamo di fronte — scrive oggi il desolato rapporto dell’università del Queensland — di fronte alla prima estinzione di un mammifero a causa del cambiamento climatico causato dall’uomo».
Il topolino australiano è diventato più famoso da morto che non da vivo. Ma il pensiero degli ambientalisti riuniti alle Hawaii, nell’ascoltare la sua storia, è corso subito agli orsi polari, ridotti a 20-30mila esemplari e classificati come “vulnerabili” (lo stesso status dei panda). All’origine del loro declino — si legge nella Red List — «c’è lo scioglimento del ghiaccio artico per via del cambiamento climatico ». La stessa causa è alla base del declino della volpe artica, mentre il koala soffre per l’inaridimento e gli incendi che distruggono le foreste di eucalipto. L’animale simbolo dell’Australia è crollato dallo stato di “poco preoccupante” a quello di “vulnerabile”. In passato abbondanti, oggi anche le zebre sono entrate nella categoria “quasi minacciate”, cacciate per la carne e la pelle.
Lo stesso panda gigante, dopo essersi allontanato dal baratro, potrebbe ritornare nella categoria “in pericolo”. «Il cambiamento climatico — hanno scritto ieri gli esperti dell’Iucn nella loro revisione della Red List — potrebbe distruggere il 35% dell’habitat di bambù nei prossimi 80 anni, cancellando i passi avanti fatti negli ultimi vent’anni ».
Per Rondinini, il controllo del territorio che la Cina ha dimostrato di saper mettere in atto per difendere il panda dovrebbe diventare un esempio virtuoso anche per gli altri paesi che ospitano specie a rischio: «No, i film porno non c’entrano. Pechino ha messo in atto una politica di difesa delle foreste e di prevenzione del bracconaggio efficace. Ma come si può chiedere altrettanto a paesi tormentati dalle guerre?». Il riferimento è alla Repubblica Democratica del Congo, dove si concentrano gli ultimi gorilla orientali, classificati da oggi come “in pericolo critico”, l’ultima tappa prima dell’estinzione. «Esistono sette specie di ominidi — spiega Rondinini — e sei sono in pericolo. Solo noi sul pianeta siamo riusciti a prosperare ». Gorilla orientale, gorilla occidentale, orango del Borneo e orango di Sumatra sono “in pericolo critico”. Scimpanzé e bonobo sono “in pericolo”.
Caccia per scopi alimentari e distruzione delle foreste sono le cause della crisi delle grandi scimmie. «Difficile dire come si potrebbe far fronte» prosegue l’esperto. «Almeno in Indonesia, si potrebbe provare a frenare la distruzione delle foreste cancellate per fare posto alle coltivazioni di palma da olio. Ma bisognerebbe prima di tutto volerlo ».
6 settembre 2016