Ne hanno discusso per mesi. E alla fine l’indicazione è stata unanime. Il paziente non esiste più. Si chiamerà «persona assistita», nuovo termine introdotto nella bozza del codice deontologico che regola la professione dei seguaci di Ippocrate. La Fnomceo, la federazione nazionale degli ordini dei medici, tornerà ad esaminarla a settembre per poi approvarla entro l’autunno.
Il testo è stato aggiornato in alcune parti e sottoposto a un restyling semantico rispetto alla versione del 2006. Previste piccole modifiche. Sul termine che identifica nei 79 articoli colui che ha contatti per qualsiasi ragione con un dottore sono però tutti d’accordo. Non malato, né ammalato, né soggetto o individuo o cittadino, parole che sopravvivono solo in capoversi dal contesto tecnico.
Meglio persona assistita perché, spiega Amedeo Bianco, presidente di Fnomceo e senatore Pd «trasmette il significato immediato di chi ha diritto a ricevere cure e assistenza senza passività. Anzi deve essere più che mai al centro del sistema. È un cambiamento importante. C’è stato un ampio dibattito, non va considerato un esercizio accademico».
Bisognerà vedere se e quanto la nuova definizione verrà utilizzata nella pratica quotidiana sia nel linguaggio tra colleghi in camice bianco sia, per iscritto, nelle cartelle cliniche o nella documentazione sanitaria. È probabile che la vecchia parola manterrà il netto predominio perché è entrata ormai a far parte della professione.
In ogni caso però è stato compiuto un tentativo di ulteriore emancipazione. Un tempo il malato veniva identificato col numero del letto. Questa modifica è servita comunque come spunto di riflessione. Storce la bocca l’ematologo Franco Mandelli, laurea nel ’55, una vita in corsia a combattere le leucemie: «Preferisco dire paziente perché si addice a un malato che deve avere pazienza nell’accettare le cure e aspettare di guarire. Il concetto legato ad assistito non mi piace perché si può avere bisogno di un medico ma non della sua assistenza. Penso ad esempio a chi ha un valore sballato di globuli bianchi e non ha necessità di restare in ospedale. Continuerò a esprimermi come sempre ho fatto».
In realtà la parola che il codice abolisce ha una radice che ne cambia il significato rispetto a quello comunemente attribuito. Viene da patiens, participio presente del verbo latino patio, che vuol dire soffrire o sopportare. Dunque si accompagna non al concetto dell’attesa ma del patimento.
Ha partecipato attivamente alla revisione del codice Giuseppe Lavra, segretario generale della Cimo, la confederazione dei medici ospedalieri: «Trovo felice la nuova definizione in quanto richiama alla nostra funzione e al rapporto con il malato. Paziente non mi è mai piaciuto però ha scontato i pregiudizi generati da un equivoco. Ricordo la celebrazione del centenario della Fnomceo da parte del ministro della Giustizia con il governo Prodi, Giovanni Maria Flick. Criticò il termine facendo riferimento al pazientare».
Roberto Lala, presidente dell’Ordine dei medici di Roma e provincia, il più grande d’Europa per numero di iscritti, è favorevole al cambiamento: «Ogni passaggio che agevola il processo verso la centralità del cittadino che ha bisogno di cure è benvenuto. A volte in ospedale si sentono espressioni che fanno rabbrividire. La peggiore è utente. Ne approfitto per lanciare una proposta a chi fa le leggi. Perché non ritornare all’antico termine di primario? Oggi sul camice veniamo identificati come dirigenti medici e il paziente, pardon, la persona assistita, fa confusione».
Margherita De Bac – Il Corriere della Sera – 21 agosto 2013