Finora era stato solo pronosticato e temuto. Adesso l’ebola, dopo ripetuti falsi allarmi, è arrivato a New York, tra i suoi otto milioni di abitanti. E la tensione è sui volti nervosi in metropolitana, forse meno affollata del solito; nelle maschere, seppur inutili, indossate da qualcuno per coprire naso e bocca; negli scambi di battute che sdrammatizzando tradiscono incertezza.
Come nell’intervento immediato delle autorità, del sindaco Bill de Blasio e del governatore Andrew Cuomo: dichiarazioni che promettono mobilitazione e invitano a evitare qualunque panico. Ricordano i bassi rischi di diffusione del virus, assicurano che gli ospedali sono pronti, ordinano agli ispettori sanitari di ricostruire movimenti e contatti del paziente zero di Manhattan. «Non c’è ragione di allarme, di cambiare abitudini – ha assicurato de Blasio – È una malattia estremamente difficile da contrarre». Gli stati di New York e del New Jersey hanno imposto una quarantena per tutto il personale medico che rientra dalle aree a rischio. Il presidente Barack Obama ha offerto qualunque sostegno alla città e si è detto vicino al malato.
Il “paziente zero” è un medico di 33 anni, Craig Spencer, in isolamento e condizioni stabili. La sua fidanzata, Morgan Dixon, e due amici sono a loro volta in quarantena. Spencer era tornato da una settimana dalla Guinea, da Gueckdou dove aveva trattato malati di ebola come volontario a fianco di Medici senza frontiere. Dal rientro il 17 ottobre nel suo appartamento di Harlem sulla 147esimaStrada, ora blindato dalle autorità, aveva osservato precauzioni: non andava al lavoro e misurava la temperatura due volte al giorno. Nonostante gli attestati di dedizione medica e passione umanitaria dei colleghi e del suo ospedale, il New York Presbyterian Hospital/Columbia University Medical Center, le polemiche su potenziali leggerezze e difficoltà nel monitorare comportamenti individuali sono però esplose. Anche se da martedì accusava fatica ed era specializzato in International Emergency Medicine, aveva visitato il parco della High Line e mangiato in due ristoranti. Mercoledì era salito sulla metropolitana, cambiando più linee, diretto a Brooklyn per giocare a bowling al Gutter, club di Williamsburg, rientrando in taxi. Gutter e un bar, Blue Bottle, sono stati ispezionati e riaperti.
La mattina di giovedì, alle 11, la telefonata a Medici senza frontiere: febbre a 38. Il primo tra oltre 700medici stranieri giunti in Africa occidentale ad ammalarsi al rimpatrio. I sintomi, la fase contagiosa, sono oltretutto scattati con puntualità: se l’incubazione può durare 21 giorni, spesso l’ebola si manifesta dopo 8-10 giorni (Spencer aveva lasciato l’Africa il 14 ottobre via Bruxelles). Il virus, a quel punto, può vivere 2-4 ore su una superficie infetta. Spencer si è isolato in casa, l’associazione ha contattato le autorità che hanno spedito personale specializzato per trasferirlo, in una tuta protettiva, all’ospedale più attrezzato tra i cinque designati per la lotta all’ebola da New York: Bellevue. Un centro che ha da mesi allestito un’ala con quattro stanze per isolare pazienti, un laboratorio e personale dedicato. In serata la conferma dagli esami: è ebola. È ebola in una metropoli abituata a shock e traumi, che ha sofferto e superato gli attentati dell’11 settembre 2001. Ma dove la subdola sfida di un virus poco conosciuto e troppo spesso letale incute ugualmente paura e, se malgestita, può seminare terrore e paralizzare attività economiche. Dove milioni di persone viaggiano gomito a gomito ogni giorno su autobus e treni; si incrociano e urtano per strada, negli uffici, nei locali. L’arrivo del virus ha così scatenato la risposta del governo locale. «Piccole dosi di ansia aiutano a stare al sicuro – ha detto Cuomo -. Mal’eccessiva ansia è improduttiva». Sono cominciate conference call con Washington sul da farsi. Tutti i treni della metropolitana sono rimasti in servizio, disinfettarli era ormai superfluo. È stato distribuito materiale informativo. A tutti è stato raccomandato il vaccino contro l’influenza, per scongiurare confusione nei sintomi, e di riferire eventuali contatti con paesi afflitti da ebola o con malati. Bellevue è in costante rapporto con i centri che hanno curato la malattia grazie a farmaci sperimentali, l’Emory University Hospital e lo University of Nebraska Medical Center. Proprio ieri un’infermiera di Dallas contagiata dalla prima vittima negli Stati Uniti, Thomas Duncan, è guarita. Un funzionario federale ha fatto sapere di considerare il pericolo a New York “vicino allo zero”. Adesso basta far sì che questa profezia si avveri.
Intanto ieri si è registrata la morte della bambina di due anni, proveniente dalla Guinea, individuata come primo caso di ebola in Mali. Si teme un contagio di molte delle persone che erano entrate in contatto con la bimba. (Il Sole 24 Ore)
Il dramma Ebola. L’intervista allo studioso David Quammen. “Il mondo globale è l’habitat ideale per una pandemia”
Antonello Guerrera. DOPO il Texas, il mostro Ebola è arrivato anche a New York. «Ma non mi stupisce. Nel nostro mondo global e ultra- connesso, non possiamo preoccuparci di Ebola solo quando viene a bussare a casa nostra. Bisogna agire prima. Siamo tutti colpevoli di questa strage». David Quammen ha 66 anni, è uno dei più celebri scrittori scientifici americani e conosce Ebola come pochi al mondo. Sono decenni, infatti, che lo studioso racconta la genesi di questo indecifrabile virus, apparso nel 1976 tra Zaire e Congo. Domani Quammen sarà in Italia, al Festival della Scienza di Genova, mentre per Adelphi è appena uscito il suo Spillover, retrospettiva di pandemie contemporanee. Lo “spillover” è quando un agente patogeno “trabocca” da una specie all’altra. Se, da un animale, il virus contagia anche l’uomo allora si parla di “zoonosi”, come avvenuto per peste bubbonica, aviaria, Aids e ora anche Ebola.
Dopo molti anni, di Ebola ancora non si conosce il cruciale “ospite serbatoio”, cioè l’animale in cui si annida e riposa il virus. Com’è possibile?
«Perché Ebola è il virus più misterioso degli ultimi decenni. Qualcuno ha accusato i pipistrelli, ma non c’è nulla di certo. Il virus “scompare” e poi riemerge all’improvviso. Di Ebola conosciamo solo la punta dell’iceberg».
In che senso?
«Ci sfuggono ancora molti passaggi dell’avanzamento della malattia. Non sappiamo perché alcune persone sopravvivono. Non sappiamo perché, al di là dell’Africa, Ebola si sia sviluppata solo in alcune scimmie delle Filippine ».
Adesso come può mutare il virus?
«Si sa che Ebola sta mutando velocemente. Certo, se il virus diventasse trasmissibile per via respiratoria, sarebbe una catastrofe. Ma è molto difficile. Anche se non impossibile».
Perché proprio adesso Ebola è deflagrata nella sua peggiore epidemia?
«Per una serie di circostanze. Sono passati ben tre mesi prima che le autorità africane riconoscessero il virus. Ma soprattutto Ebola è ricomparsa in Paesi dove i confini sono labili e le campagne molto vicine alle grandi città e agli aeroporti internazionali».
E così oggi Ebola arriva persino a New York. Ma il panico è giustificato in Occidente?
«No. Al momento, Europa e America hanno mezzi e le giuste precauzioni per contenere il virus. Il problema è in quei Paesi meno attrezzati, come Guinea e Liberia, dove Ebola distrugge vite umane, economie, intere culture ».
Quali colpe hanno le autorità mondiali?
«All’inizio la comunità internazionale ha sottovalutato la minaccia. E ora dovrebbe fornire molti più aiuti e fondi. Mentre l’Oms di recente ha visto ridursi notevolmente le proprie risorse. Assurdo. Ma, più in generale, siamo tutti colpevoli, a parte quei medici e infermieri eroi che combattono ogni giorno il virus. Nel nostro mondo global non possiamo preoccuparci di questi problemi solo quando arrivano in casa nostra. Anche perché il peggio potrebbe ancora venire».
Si riferisce al temuto “Next Big One”, ossia un’imminente e ancora più catastrofica epidemia?
«Esatto. E sarà qualcosa di mai visto prima. Perché, mentre il mondo è sempre più interconnesso, noi demoliamo le foreste, gli animali, gli ecosistemi. In un simile contesto, epidemie e zoonosi proliferano. E queste non sarebbero “la vendetta della natura”. Siamo noi che creiamo le condizioni ideali ai virus per devastarci ». (Repubblica)
25 ottobre 2014