LA STAMPA. Se domani scoppiasse una crisi al buio, con la confusione alle stelle, ci sarebbero un paio di conseguenze piuttosto drammatiche. Primo, salterebbe il prossimo scostamento di bilancio da 24 miliardi, necessario tra l’altro per acquistare i vaccini e garantire i nuovi ristori. Ciò significherebbe ritardare la lotta al virus spingendo intere categorie sull’orlo della disperazione. Non è tutto: in attesa del nuovo governo, il Parlamento sarebbe costretto a sospendere i suoi lavori, questa è la prassi; verrebbe così a mancare il tempo minimo indispensabile per approvare entro un mese (come esige l’Europa) il piano italiano per il Recovery Fund. Col risultato di perdere la prima corposa tranche di aiuti, un assegno che da solo vale 27 miliardi.
Chiaro che non ce lo potremmo permettere. E dunque la grande priorità istituzionale di queste ore viene riassunta nei seguenti termini, altamente problematici: come sia possibile procedere nel chiarimento politico tra Conte e Renzi senza mettere l’economia ancora più in ginocchio di quanto non lo sia già. Una strada sarebbe quella della crisi-lampo, con i vari protagonisti che si accordano preventivamente sul da farsi di qui alla fine della legislatura, in modo da arrivare entro un paio di giorni alla nascita del nuovo governo, magari il Conte-ter, senza perdere ulteriore tempo. Il Colle evita di pronunciarsi al riguardo, ma lassù lo scetticismo è palpabile, anche perché i principali attori non fanno che passarsi tra loro il cerino in un continuo rimpallo delle responsabilità. Un fronte non fa in tempo a chiudersi e subito ne viene aperto un altro. C’è il concreto rischio che, una volta aperta, la crisi si trascini fino alle elezioni.
Dunque l’unica soluzione ragionevole e sensata consiste nel mettere anzitutto in sicurezza l’accesso al Recovery Fund, approvando il relativo piano nel Consiglio dei ministri prima, in Parlamento poi. E successivamente, o in parallelo, procedere con il chiarimento politico che i partiti hanno il pieno diritto di sviluppare. Dal tam-tam di queste ore, è il senso della «moral suasion» che Sergio Mattarella sta esercitando tanto nei confronti del premier quanto di Italia Viva, frenando le pulsioni verso una resa dei conti tutta muscolare. Del resto, non è la prima volta che un presidente interviene per congelare un percorso di crisi a fronte di prevalenti interessi nazionali da salvaguardare. Ci sono alcuni precedenti ben noti ai giuristi in orbita Quirinale. Il caso più celebre risale al novembre 2010, quando i ministri finiani si dimisero dal governo Berlusconi e sottoscrissero una mozione di sfiducia. Giorgio Napolitano si adoperò perché la votazione avvenisse non immediatamente, bensì dopo il varo della legge finanziaria, per evitare che lo Stato finisse in esercizio provvisorio. La fiducia fu votata un mese dopo, e i Responsabili (che si erano organizzati nel frattempo) consentirono a Berlusconi di restare un altro anno al potere. Ma non è detto che, nel caso di Conte, la storia si ripeta tale e quale. —