Andrea Rossi. Certe volte la Giustizia procede così lentamente che ventiquattro anni non bastano. E quando arriva a destinazione è troppo tardi. Nel 1992 il professor Filippo Fanini, primario all’ospedale Regina Elena di Roma, si candida a dirigere la Chirurgia plastica ricostruttiva dell’ospedale Generale Figlie di San Camillo. Nessuno lo chiama, anzi, il posto viene assegnato a un suo collega, Piero Palmisano. Fanini non ci sta e fa ricorso al Tar del Lazio.
La risposta sembrerebbe scontata: il San Camillo è una struttura privata e dunque non è tenuta – come invece accade nel pubblico – a bandire un concorso; può chiamare chi vuole. A Fanini, però, la parte del trombato piace poco. Probabilmente sa di aver torto ma vuole una risposta. La attenderà a lungo. Per nove anni non succede nulla. Il decimo è l’anno della grande migrazione. Il suo avvocato di allora, Marcello Troiani, ricorda: «Al Tar cambiarono molti magistrati e gli uffici traslocarono». È vero: nel 2002 tutte le sezioni dei tribunale amministrativo si spostano dalla storica sede di piazza Nicosia in via Flaminia. «Un disastro. Migliaia di udienze si arenarono perché nel trasloco erano andati persi i fascicoli».
Trascorrono altri nove anni: il 2 novembre del 2011 il ricorso di Fanini viene finalmente discusso. Per la sentenza ci vogliono altri due mesi. Il 5 gennaio del 2012 il Tar respinge il ricorso perché «inammissibile». Dopo vent’anni i giudici comunicano al professor Fanini che ha sbagliato tribunale: il Tar si occupa di giudicare gli atti della pubblica amministrazione, ma sull’Ospedale Generale Figlie di San Camillo, che è privato, non ha alcuna competenza. E poco importa se la struttura, gestita da un ente ecclesiastico, è convenzionata con il Servizio sanitario nazionale.
In pensione
Il chirurgo, che nel frattempo è andato in pensione, cambia bersaglio: più che alle Figlie di San Camillo vuole chiedere conto alla Giustizia. Presenta un altro ricorso, stavolta alla Corte d’appello di Perugia, competente per tutti i procedimenti che riguardano i magistrati romani. Si appella alla legge Pinto sull’irragionevole durata dei processi, entrata in vigore nel 2011 per risarcire le vittime della giustizia lumaca.
Questa volta i giudici sono più rapidi, anche perché sarebbe l’ultima delle beffe lasciar passare anni prima di discutere una causa nata da un processo durato troppo a lungo. Eppure, anche in questo caso, gli ingranaggi si inceppano: il risarcimento di 8 mila euro deciso dalla Corte viene impugnato dal ministero dell’Economia. Lo Stato non vuole pagare: sostiene che il professor Fanini era ben consapevole della situazione, che la sua causa era pretestuosa e la giurisprudenza consolidata. Sapeva che avrebbe perso ma ha tentato comunque. In Cassazione, il 5 gennaio, il quadro si capovolge un’altra volta. Per i giudici il chirurgo ha diritto al risarcimento: la sua battaglia sarà stata pretestuosa, ma ciò «non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciarsi».
Ora gli atti devono tornare Perugia per stabilire di nuovo l’entità del risarcimento. Verrà fissata un’udienza che richiederà un giudice, un cancelliere e chissà quante altre persone solo per prendere atto che lo scorso anno il professor Fanini è morto e quindi il caso, dopo venticinque anni, è chiuso.
La Stampa – 14 gennaio 2016