di Gian Antonio Stella. Lepanto! Cosa c’entri la battaglia di Lepanto con lo sfascio della «Popolare» di Vicenza non lo sapremo mai. Il socio che l’ha tirata in ballo voleva paragonare i vertici della banca o quelli della Bce ai feroci saraceni? Non lo sapremo mai. Al nuovo scoppio di cagnara gli hanno spento il microfono. Bip!
Certo l’irruento azionista voleva ammonire sulla svolta epocale. Lì per l’Occidente, qui per il Nordest. La terra del mito ora tramortita: ma come, non era forse la Popolare solo tre anni fa la terza banca del Paese, capace di capitalizzare quanto Carige, Monte dei Paschi e Popolare di Milano messi insieme? Macché. Tutto finto. «Te ga da morir tute le visele!». Ti devono morire tutte le vigne!, dice il cartello di un azionista. E se su Lepanto c’erano dei dubbi, qui no: il moccolo è tutto per Gianni Zonin, «il vignaiolo». L’ex presidente della Banca che per anni, tra i cori e gli osanna dei soci più entusiasti aveva ripetuto il mantra: tutto benissimo, qualche difficoltà passeggera ma «la Popolare non ha seguito gli alti e bassi del mercato, non è stata preda delle montagne russe e dei mercati borsistici, ed è rimasta sempre coerente con il suo valore».
«Se anche tutto il vino di Zonin dovesse andare in aceto lui può rifarsi alla vendemmia successiva», urla un azionista, «Ma noi non abbiamo altre vendemmie. Quello che abbiamo perso l’abbiamo perso per sempre. Non possiamo rifarci!» E dietro il crollo del 90% delle azioni di quello che per i vicentini era il salvadanaio, riconosci una paura di tanti veneti. Di tornare poveri.
Ma certo, dal boom degli anni Sessanta la regione, l’unica a perdere abitanti tra i censimenti del ‘51 e del ‘61 si è lasciato alle spalle la miseria. Le canzoni come «Mamma papà non piangere / non sono più mondina / sono tornata a casa / a far la contadina». L’esodo: «Andemo in Transilvania a menar la carioleta che l’Italia povareta no’ ga bezzi da pagar». I casoni col tetto di paglia. E tutti i capannoni che circondano questo della «Perlini Equipment» a Gambellara che ospita l’assemblea sono lì a ricordare quanto sia forte il profilo industriale di questa provincia che già vent’anni fa esportava da sola come la Grecia e insieme con Treviso come l’Argentina. Sotto sotto, però, il ricordo della povertà e delle vacche morte di malattia disseppellite e sbranate dai nonni pazzi di fame («Una scena che ricordava i negri dell’Africa e i cannibali dell’Oceania», scrisse Adolfo Rossi) era rimasto come una sottile inquietudine. Che la crisi e lo smottamento della «Popolare» hanno fatto riemergere.
«Sono un pensionato di Padova», dice con voce incerta, sul palco, un vecchio coi capelli bianchi, «Nel 2012 mi han fatto comprare azioni ma gli avevo detto che non compravo se non mi assicuravano che in caso di difficoltà potevo ritirare i miei soldi. «Nessun problema, può farlo in cinque giorni», mi hanno detto. Nel 2013 hanno fatto l’aumento di capitale e di nuovo ho tirato fuori soldi. Mi han rubato tutto. Erano i piccoli risparmi di tutta la mia famiglia…», e se ne va per non scoppiare in lacrime davanti a tutti
Ed ecco che, nel gelo di questo capannone surriscaldato dalla rabbia, dall’esasperazione, dal rancore, va in scena lo psicodramma di una terra che si sente tradita. Un inganno doloroso. Inatteso. Ma come: veneti traditi da veneti! Basta sentire il vecchio avvocato Gianfranco Rigon ma più ancora certe reazioni al suo sfogo. «Iorio è andato in America per parlare con nuovi soci, la mafia siculo-americana, per esempio. Noi non vogliamo questa gente qua. Noi siamo veneti!», dice con fierezza campanilistica, «Vogliamo che la banca sopravviva ma non imbastardendosi con gente che non ha a che fare con la nostra cultura». E in platea: «E i “nostri” allora?». Un’anziana ma pugnace signora viene intercettata dalla Rai: «Come va?» «Sono avvelenatissima. Anche perché alternative zero» «Se avesse davanti Zonin che cosa gli direbbe?» «Ah, dirgli niente: strozzarlo di certo». Un signore col berrettino blu: «Io sono un attivista per il no. Questi sono ladri e farabutti. È giusto che non la vincano». «Ecco cos’è la classe dirigente veneta!», attacca un socio dal palco, «Questi qui vanno a far compagnia ai Galan, ai Chisso, a quelli del Mose…»
Tra i più battaglieri, le donne. «So che non accadrà perché siamo in uno Stato fondato sulla corruzione», dice una signora coi capelli a caschetto e una cordicella blu agli occhiali, «Ma auguro a chi ha fatto tutto questo di ridursi in miseria!» «Abbiamo dato i nostri soldi a un branco di scimmie!», urla furibonda un’altra, «Devono andare in galera!» «Mi chiamo Barbara Venuti, sono di Udine», si presenta una giovane, «Finché avrò fiato mi batterò per mio papà e mia mamma ai quali hanno rifilato 28.000 azioni che oggi sono carta straccia. Voglio i nomi dei colpevoli e che passino notti insonni. Insonni come le abbiamo passate noi». La signora Munaretto: «E noi dovremmo dare fiducia a un cda che nel 2015, mentre la banca crollava, si è aumentato gli stipendi del 9%? No, no, no!». Una donna di mezza età con una cascata di capelli rossi e un foulard a fiori: «Votiamo no a questo ladrocinio!»
Quasi in duecento, si erano iscritti a parlare. Per ridursi via via che qualcuno sentiva la collera propria già espressa da altri, a un centinaio e passa. Soci pirandelliani: «Mi chiamo Lucio Ferronato, sono un imprenditore tradito. Uno dei tanti, diciamo uno, nessuno e 117.000…» Soci omerici: « Io mi chiamo Nessuno perché con questa banca mi sento nessuno». Soci speranzosi come Giuliano Xausa: «Per i vecchi scafisti nessuna pietà. Ai nuovi dico: portate questo barcone fuori da queste acque tempestose, ma nel rispetto e salvaguardando i soci, i dipendenti e i clienti». Soci schifati come Gregorio Piva: «L’unica certezza che ho è che ai pesci grossi è stato permesso di portarsi a casa i loro soldi guadagnandoci e invece a noi piccoli hanno svuotato le tasche e siamo qui a soffrire per scelte scellerate». Soci avvelenati come Alberto Artoni, che non può accettare che dodici dei consiglieri siano quelli di prima e prende di petto l’ad: «Quando va in consiglio di amministrazione non le viene da vomitare, dottor Iorio?» Soci apocalittici come Pasquale Tecchia: «Abbiamo comprato azioni a 62 euro e abbiamo un pugno di mosche. E allora, macché borsa e Spa: muoia Sansone con tutti i Filistei!»
Finché arriva il momento di votare. E lì, come previsto, passa il sì. Perché certo, la collera è tanta, ma ormai va contenuto il danno. I schei xè schei …
Il Corriere della Sera – 6 marzo 2016