«Tutto iniziò con la festa di diploma all’Enologico di Conegliano. Me ne occupai io e riuscì benissimo». Fu così che il diciottenne Luca Zaia, futuro ministro e adesso presidente leghista del Veneto, scoprì di avere notevoli doti di comunicazione. «Mi misi a organizzare feste, anche con due o tremila persone. Così le discoteche mi offrirono di lavorare per loro. Divenni pr, quando le pubbliche relazioni erano agli inizi in Italia. Negli anni Ottanta non c’erano happy hour o pub, i locali aprivano alle 9 di sera, poi alle 10, poi sempre più tardi. C’era l’house music e comparvero anche l’ecstasy e i rave party».
Non c’è nulla di inedito, dice l’ex ragazzo diventato governatore, «i fenomeni di oggi arrivano da lì». Zaia studiava veterinaria e reclutava giovani per il Manhattan di Godega di Sant’Urbano, il suo paese nel Trevigiano, ma anche per il Diamantik di Gaiarine, il Kolossal di Spresiano o il Desirèe a Caorle. «Eravamo in quattro, tutti universitari. Uno è diventato un grosso imprenditore, un altro un fiorista, il terzo un arredatore».
Per dodici anni Zaia ha battuto la provincia con la sua Citroen 2 cavalli e un’idea vincente. «Gli inviti! Adesso possono sembrare normali, ma allora fecero scalpore. Presi ispirazione dai volantini pubblicitari dei mercati rionali, quelli con i saldi. Non c’erano telefonini, né social network, i ragazzi dovevi andarteli a prendere uno per uno». Un’attività redditizia. «Si lavorava solo nel fine settimana, due tre giorni e guadagnavi quanto un impiegato. Mica male, e poi conoscevi tutti. Ancora oggi c’è sempre qualcuno che si avvicina e mi dice: ti ricordi di me?».
Anche trent’anni fa le discoteche finivano sulle prime pagine come luoghi di perdizione. «Era il periodo delle stragi del sabato sera, degli incidenti e delle mamme anti-rock. Partì tutto dalla riviera romagnola, chi si schiantava a Rimini dopo una serata faceva più notizia di un operaio che tornava dalla fabbrica. Vennero demonizzati i locali, si fecero le leggi per chiudere prima. Risultato: i ragazzi andavano a bere negli autogrill, quanto volevano e senza controlli».
Nel 1998, a 30 anni, Zaia diventa presidente della provincia di Treviso. Non è più un pr ma un politico, e torna davanti alle discoteche. «Mettevo le utilitarie sfasciate all’ingresso come monito, oppure facevo raccontare ai giovani costretti su una sedia a rotelle la loro storia. Ecco, perché non si fa una cosa simile anche per la droga?».
Non solo ecstasy o pillole, il problema è anche l’alcol, Zaia lo sa bene. «Mi ricordo che c’erano i ragazzi che ne abusavano, che si facevano la “bomba”. Li rivedo adesso, sono degli alcolizzati. Quando in discoteca capitava che qualcuno si ubriacasse chiamavamo i genitori. Nell’80 per cento dei casi arrivavano persone che stavano peggio dei figli, gli altri gli davano due ceffoni e li caricavano in macchina». Ci tiene a sottolineare che più che nelle discoteche bisogna guardare dentro casa. «Le droghe e gli altri abusi si combattono culturalmente, e le famiglie hanno il ruolo più importante, non possono pensare di delegare tutto alle istituzioni. Una volta si diceva ai figli di non accettare le caramelle dagli sconosciuti, mi chiedo quanti lo facciano ancora».
Zaia precisa di non essere mai stato «un discotecaro. Allora era un lavoro, oggi non ci vado». Ma non trova molta differenza tra i locali di allora e quelli di oggi. «I dj a volte sono sempre gli stessi, un po’ invecchiati. Trent’anni fa però la droga era legata all’immagine di un vagabondo che si faceva un buco su una panchina, adesso sembra che possa essere una cosa on-off, attacchi e stacchi, fai la serata e poi passa tutto. Non pensi che ti rovina i neuroni, ti manda in crisi respiratoria, ti fa esplodere il cuore. E poi i giovani di oggi hanno meno paura di una volta, noi eravamo molto più prudenti».
Solo una volta all’anno il governatore Zaia ritrova il suo vecchio mondo. «Ad ottobre c’è una serata dove si riuniscono tutti i ragazzi d’un tempo, dj, pr, gestori. È chiamata la “cena semolino”, per via dell’età dei partecipanti». Risate e ricordi, musica e progetti. «È un ambiente sano. Io non ho mai fatto uso di stupefacenti, né ho mai visto una pasticca. La stragrande maggioranza dei ragazzi va in discoteca con l’unico scopo di ascoltare musica, ballare e divertirsi. E i gestori, allora come oggi, hanno interesse a non avere porcherie nei loro locali. La morte di quei giovani è una cosa serissima, ma trovo ingiusto scaricare tutto sull’ultimo anello della catena».
Il Corriere della Sera – 14 agosto 2015