La truffa sul miele di manuka (carissimo) dei vip “Originale solo una confezione su due”
Il numero uno del tennis mondiale, Novak Djokovic, ne tesse le lodi nel libro sulla sua dieta glutenfree Serve to win, appena uscito negli Usa. L’attrice Scarlett Johansson lo usa come una maschera sul volto. La cantante lirica Katherine Jenkins vi ricorre per schiarirsi la voce prima di un concerto.
Persino la duchessa Kate Middleton non può farne a meno. Parliamo del miele di manuka, dotato – a differenza di quello comune – di proprietà antibiotiche. Sempre che sia genuino. L’agenzia britannica per la sicurezza alimentare (Fsa) ha infatti diramato un allerta nazionale: la maggior parte del miele venduto come manuka non differirebbe in nulla daquello ordinario. Se non nel prezzo: 90 sterline, oltre 100 euro, al chilo.
Prodotto dalle api che si nutrono dei fiori dell’albero di manuka, una pianta indigena che cresce in Nuova Zelanda, fino al 1981, quando per la prima volta se ne scoprirono le proprietà antibatteriche, il miele di manuka veniva considerato un miele “di serie B”e usato come mangime per il bestiame. Oggi invece è riconosciuto come un antibiotico naturale, ricco di benefici per salute ed estetica, in grado persino di rimarginare le ferite se sterilizzato.
Su 73 etichette di miele di manuka testate quest’anno in Gran Bretagna, Cina e Singapore dalla Unique Manuka Factor Honey Association (Umfha), solo 41 presentavano però l’azione antibiotica, nota come “attività anti-perossidante”. «Potenzialmente è una frode enorme», ha detto John Rawcliffe dell’Umfha al Sunday Times. A capire che qualcosa non andava, sarebbero già bastati inumeri forniti dai produttori neozelandesi: 1700 le tonnellate di manuka confezionate ogni anno contro le 1800 vendute nella sola Gran Bretagna e le 10mila messe in commercio in tutto il mondo.
Il problema, denunciano in molti, è la mancanza di standard concordati. Il ministro neozelandese per la Sicurezza alimentare ha ora annunciato che entro il prossimo mese verranno definite le linee guida per l’etichettatura. «Sapevamo da tempo di vendere più manuka oltreoceano di quanto ne producessimo», si lamenta però Rawcliffe. «Si sarebbe dovuto agire prima».
Repubblica – 27 agosto 2013