Una giungla dei dazi da disboscare. L’agroalimentare italiano frenato da barriere tariffarie e non tariffarie: solo negoziazioni bilaterali tra paesi, tra paesi e Unione europea potrebbero migliorare la situazione. A ciò andrebbe aggiunto l’impegno dell’Italia a superare l’endemica peste suina che affligge alcune regioni.
Federalimentare stima che se si eliminassero dazi e ostacoli non tariffari l’export potrebbe raddoppiare il ritmo di crescita: entro il 2020 potrebbe raggiungere i 60 miliardi contro i 43 attesi dalla crescita fisiologica. Questo vuol dire quasi due miliardi di euro in più l’anno. Ma le barriere doganali sono una realtà come dimostrano i casi Cina, Russia e Brasile. Qualche volta le grandi imprese italiane delocalizzano nei paesi protetti per aggirare le barriere erette: si pensi a Barilla e Rana negli Usa, ai salumi Beretta in Cina, a Perfetti in India.
«Il protezionismo colbertista nei nuovi mercati – sottolinea Filippo Ferrua, presidente di Federalimentare – è particolarmente pesante per il made in Italy –. Per esempio in India i dazi medi arrivano al 35%, in Thailandia al 26%, in Cina al 17% e in Argentina al 15%. Ma ancora più pesanti sono le barriere non tariffarie». «Bisogna spingere – interviene Daniele Rossi, dg di Federalimentare – sul pedale delle negoziazioni tra paesi e, in alternativa, sulle negoziazioni con la Ue. Per esempio, l’accordo di libero scambio Ue-Corea del Sud, entrato in vigore recentemente, è esemplare sulle possibilità di eliminare le barriere commerciali».
Secondo dati della Commissione europea, nel 2012 il vino tricolore ha pagato alle frontiere dei principali paesi dazi per 269 milioni su circa 2,22 miliardi di export (il 12% medio): per lo più in Paesi dove la cultura del vino è in sviluppo, come Russia (41 milioni), Cina (10) e Brasile (8) ma anche in mercati consolidati come Giappone (26 milioni) e Svizzera (25). Nei Paesi sviluppati il mercato del vino è liberalizzato ma nell’Est e in Asia le barriere sono un vero problema: dal 15% della Cina si passa al 20% della Russia, dal 21% del Giappone al 60% della Tailandia. Ingiustificabile poi il 150% dell’India. E decisamente protezionista la barriera del 26% eretta dal Brasile. Un bel guaio per l’Italia che è il secondo esportatore mondiale di vino: 4,6 miliardi l’anno scorso ma solo il 4,7% finisce sulle tavole di Asia e Australia e l’1,3% in Sud America; la metà si ferma nella Ue e il 33% varca l’oceano per il Nord America.
«Io però – interviene Luigi Scordamaglia, ad di Inalca-Cremonini – porrei l’accento sulle barriere non tariffarie perchè queste sono più nocive e persistenti dei dazi. Auspico che il negoziato di libero scambio con gli Usa risolva questo grave problema». Nonostante gli ostacoli l’agroalimentare italiano vola sui mercati esteri (anche perché recupera un ritardo storico): nel primo quadrimestre l’export ha raggiunto 8,2 miliardi con un’accelerazione di quasi il 9%.
Ma il suo slancio è frenato in diversi Paesi sia dai dazi, che ricaricano dal 15 al 35% i prezzi, sia da impedimenti sanitari, in parte giustificati, per esempio, dalla malattia vescicolare del suino e dalla peste suina africana, localizzate in Calabria, Campania e Sardegna. Secondo alcuni osservatori il fenomeno (debellato persino in Marocco e Algeria) persiste per convenienza: gli incentivi garantiti dalla Regione Sardegna per i suini morti di peste sono superiori al valore dell’animale. E gli allevatori non vi rinunciano. Del resto la recente apertura degli Usa ai nostri salumi a bassa stagionatura è una sorta di libertà vigilata: le autorità sanitarie Usa assegneranno un bollino verde impianto per impianto e sorveglieranno il trasporto passo dopo passo.
Dall’altro lato, però, anche la Ue è protezionista: per esempio su zucchero e carni importate gravano pesanti tariffe doganali che si scaricano sui consumatori. Ma quali sono i Paesi più protezionisti? L’ultimo caso eclatante è quello della Cina che, per ritorsione ai dazi Ue sui pannelli solari, ha avviato un’indagine antidumping sul vino europeo. I cinesi ci accusano di drogare con incentivi l’export di vino. C’è anche il caso Argentina: dopo il blocco ai prosciutti europei, Bruxelles ha impugnato in sede Wto il provvedimento della Kirchner. Altri grandi Paesi protezionisti sono il Giappone e la Turchia ma soprattutto il Brasile, dove oltre a un dazio medio del 15% sui prodotti alimentari pesano le barriere sanitarie. Per esempio è vietata l’importazione di tutti gli insaccati con maturazione inferiore a 10 mesi, come ad esempio i salami, e la regolamentazione che disciplina le etichettature dei prodotti di origine animale importati rende praticamente impossibile operare senza un partner locale. Anche il vino e le bevande spiritose incontrano molti ostacoli. Le bottiglie devono recare un apposito bollo anticontraffazione, mentre al momento dell’importazione possono essere prelevati campioni da ogni partita per effettuare analisi di controllo.
Il Sole 24 Ore – 24 luglio 2013